Socialismo e Socializzazione.
Di: Franco Morini.
DA RINASCITA.EU
Da tempo ormai acquisito che a partire dalla primavera del ’44 e fino
alla caduta militare della Rsi, vi furono diretti e costanti contatti
fra esponenti di sinistra, socialisti e formazioni della stessa
resistenza (v. brigate “Matteotti”), con alcuni ambienti fascisti più
spiccatamente socialrivoluzionari quali la “Muti”.
Infatti,
proprio nell’abitazione milanese dell’ex direttore de “La Sera” e poi
capo ufficio stampa della “Muti”, Gastone Gorrieri, si avviarono i
primi colloqui ben presto seguiti da una vera e propria intesa
ratificata in seguito dallo stesso Mussolini.
Tali rapporti
vennero facilitati dal fatto che proprio nell’appartamento sovrastante
l’abitazione del Gorrieri, in via Montenapoleone n. 24, operava da
tempo la redazione clandestina - si fa per dire - dell’”Avanti!”.
I
primi d’area più o meno fascista ad istaurare contatti diretti con i
socialisti tramite Gorrieri, furono Ugo Manunta e poi Edmondo Cione,
quindi il giro si allargò direttamente o indirettamente, al prefetto di
Milano, Parini e al questore Bettini, e poi su-su fino al ministro
Biggini, al capo della polizia, Montagna e infine, come accennato, allo
stesso Mussolini il quale mantenne con i socialisti contatti indiretti
tramite il prefetto a disposizione Nicoletti, più direttamente tramite
il socialista nazionale, Carlo Silvestri.
Scrisse a suo tempo
Manunta che, invitato nel luglio del ’44 a casa di Gorrieri, lo trovò
in compagnia di uno sconosciuto che gli si presentò come tal “Marino”
(Gabriele Vigorelli), membro dell’esecutivo del Partito Socialista
(Psiup), costui entrò subito in argomento avanzando l’ipotesi di una
tregua politica finalizzata ad una successiva collaborazione politica
fra gli elementi socialrivoluzionari delle due parti.
L’esponente
socialista si dichiarò, infatti, del tutto favorevole, qualunque cosa
avvenisse, alla salvaguardia delle recenti conquiste sociali varate
dalla Rsi e di voler pertanto difenderle da qualsiasi azione contraria
interna od esterna sia al fascismo che all’antifascismo e, proprio a
quel fine, proponeva di gettare un ponte… fra i vostri uomini e tra i
nostri [poiché] il Paese non è tanto diviso dal fascismo e
dall’antifascismo quanto dalla guerra. Metà degli italiani punta su un
esercito straniero, metà sull’altro. Quale sarà la carta vincente lo
diranno gli avvenimenti. L’importante è che dalla sconfitta di uno dei
due eserciti stranieri, l’Italia e gli italiani escano con il minor
danno possibile; questo deve essere lo scopo del “ponte”: mettere tutte
le forze di cui dispone il paese sotto un comando unico, che sarà
vostro nel momento cruciale se la vittoria sarà dei tedeschi, nostro se
vinceranno gli angloamericani [1].
L’accordo avrebbe dovuto così
sostanziarsi: in caso di vittoria dell’Asse, i socialisti si sarebbero
aggregati ai repubblicanosociali a difesa e consolidamento delle nuove
avanzate conquiste come la socializzazione e quindi nel fronteggiare
insieme gli eventuali sabotatori interni o esterni alla Rsi; qualora
l’avessero spuntata gli angloamericani riuscendo a forzare l’ultima
linea di difesa, identificata a quel tempo in quella del Po, le varie
brigate Matteotti col supporto dalle ex milizie fasciste avrebbero
proclamato nell’intero triangolo industriale Milano-Torino-Genova,
prima dell’arrivo degli Alleati a seguito della ritirata tedesca, la
Repubblica socialista del Nord Italia. [2]
Ovvio che un tal
progetto, se giudicato col senno di poi, non poteva che apparire
velleitario con tutto che non abbiamo ancora aggiunto il particolare
più curioso rappresentato dal fatto che, qualora non fosse stato
accettato il fatto compiuto della proclamata Repubblica socialista del
Nord, da parte di Alleati e sub governo del Cln, si era perfino
ipotizzato d’inviare un appello all’Urss perchè intervenisse in qualche
modo a difesa della neoproclamata repubblica socialista del Nord.
Velleitari
o meno, sicuramente non furono pochi coloro che in campo antifascista,
a fronte del topos di coniugare socialismo e nazione, finirono
inevitabilmente con amalgamarsi se non politicamente, quanto meno
socialmente, al modello economico fatto proprio dal loro
schmittiano“nemico assoluto”.
E’ il caso della formazione
prevalentemente – ma non esclusivamente - laziale [3], di “Bandiera
rossa”, i cui dirigenti rifiutarono di sottomettersi e riconoscere
l’autorità del Cln per il solo fatto che non tutti i partiti componenti
il Cln erano schiettamente repubblicani.
Oltre all’ inflessibile
pregiudiziale antimonarchica, Bandiera rossa propugnava dal punto di
vista economico la socializzazione dei grandi mezzi di produzione e di
scambio e su queste due precise basi oppose al Cln un suo Comitato di
Salute Pubblica ( d’ora in poi, C.d.S.P.) dopo aver assunto anche
l’indicativa denominazione di Federazione Repubblicana Sociale [4]:
Capo
dell’ala militare dei vari gruppi operativi di “Bandiera rossa – Fed.
Repubblicana Sociale” era il capitano dei granatieri Aladino Govoni,
futura vittima alle Ardeatine e figlio dello scrittore futurista,
Corrado Govoni, già segretario del sindacato fascista Autori e
Scrittori.
A proposito di Ardeatine, in una intervista di
Pierangelo Maurizio ad ex esponenti di Bandiera rossa, fra i quali
l’ultimo dei suoi fondatori, Roberto Guzzo, venne avanzata l’accusa che
l’attentato di Via Rasella fosse stato teso più che altro a ostacolare
e neutralizzare l’attività politica posta in essere a Roma dai gruppi
federati in Bandiera rossa – Fed. Repubblicana Sociale [5].
Pare,
infatti, non fosse un caso che giusto al momento dell’esplosione,
presso una latteria di via Rasella si stesse svolgendo una riunione di
militanti di Bandiera rossa.
Ed è anche volutamente poco noto il
fatto che fra le vittime dirette o indirette dell’attentato gappista,
oltre ai vari civili si contino anche due militanti di Bandiera rossa:
Antonio Chiaretti ed Enrico Pascucci. Circa la loro sorte, sussistono
ancora due distinte versioni, nessuna delle quali suffragata da
certezze, ovvero, se i due siano stati coinvolti direttamente
nell’esplosione o caduti, piuttosto, in uno scontro a fuoco con i
Tedeschi nel fallito tentativo di allontanarsi da via Rasella.
Nella
sostanza cambia ben poco e resta in ogni caso il fatto essenziale che
oltre ai due nominati, Bandiera rossa perse altri 68 militanti nella
successiva rappresaglia delle Fosse Ardeatine, tra i quali lo stesso
capo militare di B.r. Aladino Covoni mentre, per contro, non furono più
di tre le vittime Ardeatine più o meno riconducibili ai ciellenisti.
Parimenti ignoto è il fatto che Bandiera rossa, con circa 1.200
militanti ufficialmente riconosciuti con la qualifica di partigiani
combattenti, è stato il più forte e organizzato movimento politico
insurrezionale del Lazio, fatto questo che dava ovviamente non poco
fastidio alle mire egemoniche del Pci al quale ,infatti, si fanno
risalire le numerose delazioni che portarono all’arresto di numerosi
militanti di B.r. e alla loro successiva fucilazione come ostaggi nella
misura complessiva di ben 181 giustiziati[6].
Stessa cosa accadde
in Piemonte dove operava l’analoga formazione “Stella rossa”, che
contava molti più adepti del Pci ma che.. poco alla volta grazie a
segnalazioni anonime furono catturati dai tedeschi. Di chi fosse la
denuncia lo si sapeva, ma era meglio non dirlo [7]
Ma c’è ben altro.
L'attentato
di via Rasella servì a bloccare l’iniziativa posta in essere da
Bandiera rossa…contro l’imposizione imperialistica
anglo-russa-americana [ conclusasi in una trattativa diretta ] tra le
sane forze del Comitato di salute Pubblica e quelle naziste [8]; per un
accordo finalizzato al pacifico passaggio di poteri fra il comando
tedesco - autorità repubblicane e il C.d.S.P. che, fra l’evacuazione di
Roma da parte dell’Asse e prima ancora dell’arrivo degli
angloamericani, contavano di proclamare la Repubblica Romana dei
Lavoratori con l’intento di bloccare il rientro a Roma della dinastia
Savoia col suo sub governo di Salerno e implicitamente l’ occupazione
della capitale da parte delle truppe del colonialismo inglese e del
capitalismo statunitense.
Progetto, questo, che era stato avviato
dal C.d.S.P. nel gennaio del ’44 contattando il ministro dell’Interno
Buffarini il quale delegò alla trattativa un Direttore generale di P.S.
coadiuvato da un Questore, poi, tramite mediazione di Dollman, le
trattative tra repubblicani e tedeschi con il C.d.S.P. passarono
all’ufficio romano di Kappler [9] dove furono parzialmente sospese
durante lo sbarco ad Anzio per poi riprendere comunque in marzo [10] e
si stava già giungendo in vista dell’accordo quando l’attentato di via
Rasella bloccò definitivamente ogni iniziativa, anche perché la
presenza in via Rasella del gruppo di militanti di B.r. mirava ad
ottenere l’effetto, peraltro raggiunto, d’indurre i Tedeschi se non a
incolpare, per lo meno a sospettare del C.d.S.P. che, fra le altre
cose, si era impegnato a garantire che l’eventuale ripiegamento al Nord
di truppe e civili dell’Asse, potesse avvenire senza particolari
intoppi da parte antifascista.
Che queste non siano semplici
congetture, lo dimostra la cronaca giudiziaria tratta da “Il
Messaggero” del 19 giugno 1948 concernente il processo a Kappler il
quale, messo a confronto con il prof. Felice Anzaloni, che pur essendo
stato fra i partecipanti alle citate trattative , nella sua diversa
veste di teste lo stava biasimando per la “cieca rappresaglia”, Kappler
gli obiettò che .. anche voi siete stati ciechi. Vi siete prestati al
gioco degli alleati, tuttora vostri nemici, i quali servendosi dei
comunisti hanno ottenuto di annullare le trattative che avevamo in
corso.
Da allora, per oltre mezzo secolo non si riuscì mai a
varcare la soglia palesemente intermedia rappresentata da Amendola e
risalire ai veri mandanti dell’attentato di via Rasella, se si eccettua
la testimonianza al processo Kappler del gappista pentito Guglielmo
Blasi il quale riferì alla Corte che Calamandrei gli aveva mostrato
l’ordine operativo d’azione siglato E.E; sigla questa che coincideva
con le iniziali di Ercole Ercoli, pseudonimo moscovita di Togliatti
[11].
Questa rivelazione lasciò i più abbastanza scettici anche
perchè Togliatti era rientrato in Italia dall’Urss il 27 marzo, cioè
quattro giorni dopo attentato.
Sempre in via cronologica, il
giorno 25 i giornali romani divulgarono la notizia dell’avvenuta
rappresaglia e il giorno dopo, sarà anche un caso ma Amendola tentò
inutilmente di coinvolgere la Giunta militare del Cln nell’assunzione
di responsabilità dell’attentato ed è per questo che il 30 marzo, i
comunisti furono costretti ad assumersi la totale responsabilità
dell’attentato con un comunicato pubblicato su “L’Unità”..
Successivamente,
allorché nel corso del processo Priebke negli anni ’90, si tornò a
trattare per inevitabile connessione di via Rasella, su “Il
Contemporaneo” del febbraio 1996, Giorgio Prinzi scrisse che… con
l’attentato di via Rasella veniva conseguito il risultato di decapitare
(con il lavoro sporco affidato ai tedeschi) lo scomodo vertice della
resistenza militare la cui eliminazione era stata, secondo quanto
riferito da Amendola, esplicitamente richiesta da Carlo Andreoni,
vicesegretario del Psiup.
Considerato che la rivista marxista “Il
Contemporaneo” era stata fondata da Carlo Salinari, cioè uno dei
partecipanti all’azione di via Rasella e che inoltre fra i vari
collaboratori la rivista annoverava anche lo storico Piero Melograni a
cui Amendola aveva riferito del presunto ruolo d’ispiratore svolto da
Andreoni [12], non pare debba più sussistere alcun dubbio sul fatto che
l’attentato del 23 marzo fosse effettivamente finalizzato non tanto ad
una specifica azione militare, quanto a indurre i Tedeschi alla
rappresaglia sui loro diversi ostaggi.
Meno convincente appare
invece la chiamata in causa dell’esponente socialista nel ruolo di
ispiratore o peggio, mandante, anche perché Andreoni (impossibilitato a
smentire in quanto deceduto negli anni ’50) non solo all’epoca era un
fervente simpatizzante di Bandiera rossa [13], ma aveva addirittura
aderito,insieme a quel gruppo di socialisti rivoluzionari che a lui
facevan capo, alla Federazione Repubblicana Sociale.
Senza
contare che Andreoni, sempre in polemica con Nenni e Pertini, lasciò
ben presto il Psiup per confluire nel gennaio 1945, insieme a Bandiera
rossa, nel nuovo raggruppamento denominato “Spartaco”, fortemente
caratterizzato da una accanita opposizione al governo ciellenista.
Ultima
ciliegina sulla torta, è lo stesso Cione a riportare che Mussolini…
non aveva certo disapprovato le intese tentate da alcuni, tra cui
Manunta, con Carlo Andreoni, segretario del Partito socialista, che in
certo senso si mostrò pieno di comprensione per il fascismo di Salò.
[14]
E, infatti, circa un anno dopo l’uscita dell’ articolo di
Prinzi volto a coinvolgere Andreoni, venne a galla una nuova ma non per
questo sconcertante acquisizione giudiziaria: ispiratori e mandanti
della strage di via Rasella dovevano ricercarsi all’interno dei comandi
alleati o meglio ancora dell’OSS. Questo quanto in sintesi rivelato
l’11ottobre 1997, da Rosario Bentivegna e Carla Capponi “in gran
segreto”, al sostituto procuratore di Roma, Vincenzo Roselli, fatto così
chiosato da Pierangelo Maurizio:…insomma quelli che poi sarebbero
diventati i < nemici imperialisti > americani e inglesi avrebbero
dato mandato ai Gap comunisti di mettere a ferro e fuoco la capitale
per dare una mano dietro le linee a quella che era la macchina da
guerra più potente del mondo.. non mancando giustamente di far rilevare
come tuttavia ..l’azione di guerra di via Rasella non distolse dal
fronte un solo soldato tedesco [15]
Aveva quindi ragione Kappler
allorché fin dal 1948 accusò i comunisti di essersi prestati al gioco
degli Alleati innescando volutamente la duplice strage allo scopo di
scompaginare la particolare convergenza creatasi a Roma di forte
opposizione al Cln al governo badogliano e agli stessi alleati,
riuscendo effettivamente a bloccarne le trattative e,
contemporaneamente, a colpire a fondo gli odiatati deviazionisti di
Bandiera rossa.
Del resto, che al di là delle linee alleate
fossero seriamente in pena per la prospettata proclamazione della
Repubblica Romana dei Lavoratori, lo si deduce da un’altra
testimonianza fornita dallo stesso Bonomi al solito processo Kappler:
…ebbi
contatto con la Giunta militare del Cln una sola volta. C’erano due
tendenze: una di sinistra che aveva intenzione di impadronirsi del
potere al momento della liberazione di Roma e formare un governo
indipendente da quello del Sud e l’altra che intendeva consegnare la
città al governo legittimo. Quella fu l’unica volta che minacciai di
dimettermi se fosse prevalsa la tendenza di sinistra [16]
Mescolando
per bene le carte, Bonomi sembrerebbe voler far credere all’esistenza
di una frattura interna alla Giunta militare concernente la situazione
romana, spaccatura che non c’era affatto dal momento che i propugnatori
del “governo indipendente” non facevano parte – come già accennato –
di alcun organo del Cln che peraltro avversavano. L’intervento “unico”
di Bonomi sulla Giunta con relativa minaccia di sue dimissioni dal Cln
era dunque probabilmente un avallo, presumibilmente sollecitato o
concordato con i comandi alleati, in vista di un’azione risolutiva nei
confronti di quella “sinistra che aveva intenzione di impadronirsi del
potere al momento della c.d. “liberazione”.
Si deve quindi
allargare il campo sulle responsabilità dell’attentato di via Rasella,
dagli esecutori e mandanti - comunisti e Alleati - allo stesso vertice
del Cln e , di conseguenza, al sub governo di Salerno.
All’epoca,
infatti, Bonomi era ancora presidente del Cln, essendo allora in carica
il 1° governo Badoglio. Fatto singolare, e ancora tutto da spiegare, è
che Bonomi si dimise effettivamente dal vertice del Cln, ma in data 26
marzo 1944, ovvero il giorno stesso in cui la Giunta militare di Roma
si era rifiutata di assumersi la responsabilità collegiale
dell’attentato. Altro singolare abbinamento si avrà il 30 marzo quando
da una parte “L’Unità” rivendicherà ai soli comunisti l’azione compiuta
e, contemporaneamente, un comunicato dei vertici del Cln condannerà
ufficialmente la rappresaglia posta in atto dai Tedeschi senza tuttavia
pronunciarsi sul precedente di via Rasella.
Con questo non si
vuol certo affermare che l’attentato comunista sia spiaciuto al governo
del Sud e questo nonostante l’alto numero di militari badogliani che
furono sacrificati alle Ardeatine.
Infatti, proprio in quei giorni
di fine marzo e inizio aprile, il sub governo di Salerno varò in
fretta e furia una amnistia concepita apparentemente ad hoc per coprire
esecutori e mandanti dell’attentato di via Rasella. L’amnistia, datata
5 aprile 1944, copriva l’intero periodo precedente specie nei
confronti di chi avesse… come militare e come civile compiuto atti
diretti a frustrare l’attività bellica delle truppe tedesche o di chi a
esse prestavano aiuto.
Questo tempestivo provvedimento
legislativo varrà ad evitare che, una volta occupata la capitale da
parte degli eserciti alleati, qualsiasi inchiesta si fosse potuta
avviare nei confronti degli autori e mandanti di quella strage, e cosi
fù.
Resta in ogni caso delineata una coerente linea strategica da
parte della sinistra nazionale e antimperialista che raccorda il
progetto della Repubblica Romana dei Lavoratori a quella più nordista
della Repubblica Socialista del Nord Italia. Linea strategica
sviluppatasi nel tempo, dalla più cauta successione romana alla vera e
fattiva collaborazione per quanto concerne il Nord.
Si passò,
infatti, dalla Federazione Repubblicana Sociale della romana Bandiera
rossa, al Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista (RNRS)
milanese fondato da Edmondo Cione. Nel marzo 1945, il RNRS si dotò di
un proprio organo di stampa la cui testata prese il titolo mazziniano
di “Italia del Popolo” che nel contempo riecheggiava, come a volerlo
sostituire con una rinnovata prospettiva, quel “Popolo d’Italia” che
emblematicamente dal 25 luglio 1943, non aveva più ripreso la
pubblicazione. Fra marzo e aprile ’45, uscirono 13 numeri di “Italia del
Popolo” diretto da Cione e amministrato dal socialista Vigorelli
(alias “Marino”) che ricopriva anche la carica di amministratore unico
del movimento. Al giornale collaborarono Carlo Silvestri, i
repubblicani parmensi Zocchi e Icilio Fietta, e altri come Vatore,
Cella, Pandolfo, Janni, Sollazzo, Piacentini ecc.
Dal punto di
vista militare, il comandante in capo delle brigate “Matteotti”,
Corrado Bonfantini, si relazionava direttamente con i vertici della Rsi
allo scopo di creare raggruppamenti militari misti [17] da poter
utilizzare il giorno della proclamazione della Repubblica Socialista
del Nord.
Silvestri, ad esempio, cita perfino una formazione
armata al suo comando denominata “Decima Mat-teotti” forte di 200
elementi scelti fra la polizia effettiva e ausiliaria che avevano la
loro sede presso la direzione di polizia [18], quindi col presumibile
avallo dello stesso capo della polizia e ben noto interlocutore di
Silvestri, Montagna..
In effetti, nell’incombere della fine, Mussolini si era riservato tre possibili soluzioni finali:
1)
il passaggio diretto di poteri fra Rsi e Partito socialista; 2) un
trapasso condizionato (si chiedeva l’autorizzazione all’esistenza
politica del Pfr nella nuova situazione) tra Rsi e Clnai, in un rapporto
che si accavallò con la nota trattativa in arcivescovado; 3) ultima e
estrema resistenza nel ridotto valtellinese. E’ significativo che
Mussolini diede la precedenza alla prima soluzione quando il 22 aprile
convocò in prefettura Silvestri per dettargli la proposta di passaggio
di poteri da comunicare urgentemente all’Esecutivo e al C.C. del Psiup.
Il documento mussoliniano si apriva con la sua dichiarazione d’intenti
di voler….consegnare la Repubblica Sociale ai repubblicani e non ai
monarchici, la socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai
borghesi. Nel proporre questa trasmissione di potere egli [ Silvestri
scrive sotto dettatura di M, n.d.r.] si rivolge al Partito socialista,
ma sarebbe lieto se l’offerta fosse considerata ed accettata anche dal
Partito d’azione nel quale del resto prevalgono le correnti socialiste.
Non estende l’offerta al Partito comunista solo perché la tattica di
questo partito esclude che nell’attuale situazione internazionale esso
possa assumere in Italia atteggiamenti che sarebbero in contrasto con il
riconoscimento dell’Italia come zona d’influenza inglese [19]. Seguono
poi quattro punti contenenti vari paragrafi volti a regolare nei
dettagli il passaggio di poteri.
Silvestri inoltrò il documento
agli organi direttivi del Psiup tramite Bonfantini, pur essendo ben
conscio dell’impossibilità pratica di far fronte comune all’avanzata
alleata che aveva ormai superato il Po senza troppi problemi, specie
dopo che i Tedeschi avevano praticamente cessato di combattere a
seguito degli avanzati accordi di resa da parte del gen Wolff.
Il
progetto d’istaurare con le armi la Repubblica Socialista del Nord era
di fatto tramontata per la mancata evacuazione dei Tedeschi da un
parte e il rapido passaggio del Po degli Alleati, dall’altra. Tutto si
riduceva al paragrafo terzo del punto 3) della proposta mussoliniana in
cui si metteva a disposizione del Psiup una certa aliquota di militari
della Rsi nel caso che il Psiup, ed eventualmente il P.d.’A. e con
l’augurabile consenso del Pci, prendesse in consegna la citta di Milano
dalla Rsi. Ormai tutto era circoscritto alla sola, per quanto
importante, capitale lombarda.
La risposta pervenne nella
mattinata del 24 aprile per bocca di Riccardo Lombardi, allora massimo
esponente del P.d’A. a Milano, il quale informò Silvestri che la
proposta di Mussolini non poteva essere presa in considerazione in
quanto la trasmissione dei poteri ad un solo partito o ad un limitato
numero di partiti, avrebbe determinato la rottura del patto di unità
interno al Clnai provocando uno scontro dalle inimmaginabili
conseguenze e questo proprio nel momento in cui si prospettava la
vittoria completa. Silvestri tornò a riferire a Mussolini il quale solo
allora si decise a giocare quella seconda carta relativa ai rapporti
diretti con il Clnai in vista di una resa condizionata tramite la
possibile mediazione di Schuster con tutto quanto è poi seguito.
Il
25 aprile 1945 il Comitato insurrezionale del Clnai, riunitosi per
l’occasione tra le accoglienti mura extraterritoriali del Collegio
salesiano S. Ambrogio di Milano, decretava fra altre cose l’annullamento
delle leggi socializzatrici nello…stesso tempo in cui venivano
riconosciuti i Consigli di fabbrica[20] i quali si erano costituiti in
attuazione dell’ abolita socializzazione.
Una disposizione a dir
poco ambigua in quanto palesemente tesa a contemperare il più avanzato
retaggio sociale del fascismo col Moloh capitalista che stava
sopraggiungendo al seguito delle truppe d’invasione alleate.
Spogliati
di fatto d’ogni loro base giuridica, che restava in sostanza dei
Consigli di gestione aziendali, peraltro fin troppo speranzosamente
ribattezzati dal Clnai: “Consigli di gestione nazionali”?
Cosa
fossero questi neo Consigli “nazionali”, provò a chiarirlo Umberto
Sereni, presidente del Cln lombardo, informando i lettori de “L’Unità”
che:…i Consigli di gestione fascista vengono sostituiti da Consigli di
gestione nazionali in cui accanto ai rappresentanti degli azionisti
siedono a parità di diritto i rappresentanti effettivamente designati
dalle maestranze che partecipano alla gestione dell’impresa. E fin qui,
ben poco di nuovo rispetto ai passati Consigli, ma andando poi a
trattare il dettaglio della partecipazione agli utili d’impresa, vennero
subito a galla le prime magagne.
Per esempio, tra lavoro e
capitale la precedenza veniva assegnata a quest’ultimo garantendo
prioritariamente gli interessi in conto capitale da computarsi fino a
una soglia, non specificata, solo dopo la quale l’eventuale residuo
utile andava finalmente a beneficio del fattore lavoro. Sempre per modo
di dire, in quanto il “bonus-lavoro” non era più direttamente
atttribuibile alle relative maestranze aziendali giacchè la nuova
normativa emanata dal Clnai non contemplava affatto una distribuzione
diretta, dal momento che il surplus prodotto (o plusvalore) dopo aver
renumerato il capitale, doveva essere versato in un fondo generico a
indistinto beneficio di tutti i lavoratori, compresi i disoccupati, per
finanziare mense, assistenza orfani, malattie ecc.e ciò al fine…di
evitare sperequazioni e particolarismi che non potrebbero che
danneggiare la necessaria unità della classe operaia[21].
Come
dire che stringi, stringi, ai delegati eletti nei nuovi Consigli di
gestione ciellenisti era solamente concessa la mera presenza in tali
organismi, senza più alcun beneficio econonomico a favore dei loro
reappresentati.
Più che di socializzazione si può dunque parlare
di una evanescente chimera mirante solo a far decantare, col passare
del tempo, anche il ricordo della precedente socializzazione
mussoliniana nella quale, è il caso di sottolineare, venne abolita la
corporazione sindacale dei datori di lavoro in quanto nella Rsi
socializzata non c’era più spazio per gli ormai sorpassati sciur padron
da li beli braghi bianchi.
Nel nuovo modello di pretesa
socializzazione si poteva già vedere di che legno era fatta la scopa se
si “leggono” i toni tutt’altro che sovversivi de “L’Unità” dalla quale
si poteva apprendere che, a scanso di equivoci: …attraverso i Consigli
di gestione gli operai non s’illudono di diventare i padroni
dell’azienda, ma vogliono soltanto collaborare coi dirigenti
responsabili, sapere ciò che accade nell’azienda, sapere il perché ed i
limiti necessari delle rinunce temporaneamente accettate [22].
Di
fatto, nemmeno la pur modesta richiesta di poter per lo meno conoscere
i motivi per i quali si continuava sempre più a tirare la cinghia in
azienda, veniva di norma considerata da quegli imprenditori che si
apprestavano puntutamente ad operare in un ambiente economico in cui
era ormai stata restaurata la libera attività speculativa..
Ciò
premesso, per quale serio motivo i vertici aziendali avrebbero dovuto
far conoscere ai consiglieri eletti sì dalle maestranze- ma del tutto
privi di poteri giuridicamente riconosciuti - i loro vari propositi di
procedere quanto prima alla ristrutturazione dell’intero comparto
produttivo post-bellico, anche tramite licenziamenti generalizzati,
contando sulle collaudate leggi economiche di produzione capitalista
per le quali ogni sostanziale alleggerimento dei costi del fattore
lavoro equivaleva sempre ad un rispettivo incremento del valore
azionario.
In questo quadro ormai fin troppo sbilanciato, capita
anche che nel dicembre del ‘45 il sindacato allora unitario della Cgil
lasci decadere anche formalmente i Consigli di gestione nazionali per
avere in cambio dalla Confindustria, l’istituzione della nuova scala
mobile, l’introduzione del cottimo nonché l’equiparazione salariale fra
uomini e donne.
Alle maestranze venne del resto fatto credere
che in fin dei conti si trattava di un buon accordo anche perché i
principi socializzatori - al momento giuridicamente congelati -
sarebbero stati poi inseriti nella nuova Costituzione in modo da poter
pervenire ad un nuovo quadro normativo d’ispirazione costituzionale
valido per tutta la nazione e non più per le sole regioni della ex Rsi.
Una
volta accantonato anche l’ultimo ostacolo dei Consigli di gestione
che, per quanto già opportunamente sviliti dal Clnai, avrebbero comunque
potuto insidiare gli affabili rapporti fra sindacato [23] e
industriali, il 19 gennaio 1946 - Cgil e Confindustria stipularono un
accordo, ratificato poi dal Governo il 1° febbraio, in base al quale era
concordemente riconosciuta l’inderogabile necessità di procedere ad un
radicale ridimensionamento delle maestranze tramite massicci
licenziamenti, per quanto prudentemente scaglionati, allo scopo di
ristrutturare l’apparato produttivo in funzione post bellica.
Come
da manuale dello speculatore, i titoli azionari, specie quelli delle
industrie del Nord, iniziarono costantemente a lievitare fino a toccare
in aprile un picco passato poi alla storia dell’economia nazionale
come la prima ondata speculativa dell’Italia post-bellica, tale da
indurre il ministro dell’Economia dell’epoca, Corbino, ad imporre un
deciso calmiere all’abnorme crescita in valore dei titoli azionari.
In
questo difficile contesto, ai vari produttori subordinati altro non
restava che puntare su quelle norme socializzatici che, conservando un
certo ottimismo, si sperava venissero a far parte della nuova
Costituzione, così come era statopiù volte promesso. Un ottimismo
apparentemente non infondato quando si consideri che lo stesso Fanfani,
in qualità di membro della Commissione dei 75, incaricata di una prima
stesura degli articoli costituzionali, richiamandosi alla bozza
concernente l’articolo 43 (art. 46 nella stesura finale), così l’aveva
sintetizzata e fatta approvare in sede di sottocommissione: Lo Stato
assicura il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle
aziende ove prestano la loro opera.
Millantando il proprio ruolo
in questa bozza, Fanfani non mancò di chiarire che ..su sollecitazione
dei democristiani s’intende precisare che per l’impossibilità di
trovare un termine più appropriato [a “partecipazione”] era da
considerarsi comunque salva.. la possibilità di partecipare al
controllo dell’impresa anche in altre forme. E in tal modo si superò il
dissidio aspro fra comunisti e democristiani che per mio intervento [
Fanfani] avevano chiesto la partecipazione all’amministrazione, alla
efficienza, alla comproprietà, agli utili dell’impresa[24].
In
questa gara con i comunisti, mirante a dilatare il concetto di
partecipazione, sembrerebbe volersi far riconosce quel tal Fanfani, già
docente di diritto corporativo di non molti anni prima[25] .
Ma
tra il dire e il fare questa volta c’erano di mezzo i cosiddetti “padri
costituenti” i quali, nel caso in questione, si comportarono più che
altro da veri “padrini”della peggiore mafia politicante.
In sede
di Assemblea Costituente, l’art. 46 ( ex 43, della bozza ) venne
trattato, contrariamente alle aspettative, in modo fin troppo spiccio
per non dire elusivo. Un dibattito ridotto al minimo e con vaghe
affermazioni più di principio che di causa. A cominciare da Einaudi
(U.D.N.) il quale si dichiarò semplicemente contrario sia alla
compartecipazione agli utili che alla conduzione della azienda al fine
di evitare che maestranze e imprenditori potessero accordarsi per
taglieggiare la collettività (Cfr. Atti costituzional, pag. 4020).
Congettura chiaramente pretestuosa e del tutto opinabile specie sul
fatto che soci o azionisti dovessero considerarsi meno inclini alla
speculazione che non le rispettive maestranze.
Tassativamente
avverso ai Consigli di gestione si dichiarava pure il costituente Mario
Marina (U.D.N.) mentre, al contrario, si disse favorevole, il
socialista Tito Oro Nobili. Favorevolmente alla partecipazione delle
maestranze, ma per i soli utili di azienda, si espressero sia il
repubblicano Camangi che tale Puoti (U.D.N.). La formula definitiva si
deve però ad un emendamento presentato dal democristiano Gronchi e
fatto poi proprio dall’Assemblea, secondo il quale occorreva… elevare
il lavoro da strumento a collaboratore della produzione facendo
tuttavia salvo il principio che non vi è feconda attività produttiva
senza… l’unità di comando nell’azienda.
Grazie a questo
emendamento bassamente volpino, il termine “partecipare” venne così
sostituito nel testo definitivo col verbo “collaborare” e in tal modo
il gioco delle tre carte era compiuto. Anche se poteva sembrare solo
una blanda sfumatura linguistica, in realtà l’art. 46 si trasformava in
uno sterile pleonasmo giacché non era certo una novità ma semmai un
dato di fatto del tutto scontato che, per il solo fatto di eseguire il
loro lavoro le maestranze collaborassero già a tutti gli effetti alla
produzione aziendale.
L’evirazione compiuta su questo articolo
venne peraltro largamente facilitata dalla complice assenza nel
dibattito sia della componente sedicente comunista - che pure contava
oltre cento membri all’Assemblea costituente - che di quel tal Fanfani,
compagno di partito dell’affossatore Gronchi, il quale giusto qualche
mese prima si vantava, come riferito, di puntare al massimo rialzo in
concorrenza con il Pci, sull’ interpretazione più estensiva da dare
alla partecipazione delle maestranze alla gestione aziendale.
Mafiosi
“dell’onorata costituente” sia i referenti che i votanti; mafiosi
della peggior specie gli ingiustificati latitanti dalle grandi
promesse, si chiamassero Fanfani oppure Di Vittorio.
Dal 14 maggio
1947, data in cui venne mutilato art. 46, nessuno si è più curato di
lui; abbandonato alla sua sorte, oggi ben pochi si ricordano della sua
inerte esistenza e del resto questo era esattamente ciò a cui avevano
mirato i padrini costituenti e non tanto per un loro particolare
disegno , ma perché gli era oggettivamente impedito dall’ormai
restaurato vecchio assetto politico-economico.
Esemplare, a tal
proposito, la puntuale analisi espressa dai nazional-bolscevichi di
“Bandiera Rossa”, i quali avevano giustificato la loro ripulsa del
pateracchio esapartitico del Cln con questa profetica dichiarazione:
“Date alla società un equilibrio in senso borghese, rimettete la
società capitalistica in grado di funzionare, e voi avrete stroncato
ancora per una generazione [ad essere ottimisti n.d.r.] le possibilità
rivoluzionarie del proletariato”[26]
In effetti è del tutto
evidente che anche da un’angolazione prettamente marxista o leninista,
la tanto strombazzata “resistenza” ciellenista si è rivelata nei fatti
socialisticamente regressiva e pertanto oggettivamente reazionaria e
questo indipendentemente dalle possibili migliori intenzioni.
Note:
[1] U. Manunta “La caduta degli Angeli”A.E.I. Roma 1947, pag 83 e ss.
[2] Cfr. E. Cione “ Storia della RSI”, 1948, pag. 386.
[3] Bandiera rossa, oltre al suo caposaldo laziale, aveva propaggini specie in Piemonte (Stella rossa) e nel Bresciano.
[4]
Cfr. G. Genzius ( Roberto Guzzo) “Tormento e gloria – Verità alla
ribalta” 1964, pag. 427 e ss.. Il Guzzo , gia uffciale dei granatieri,
fu tra i primi fondatori del movimento che era sorto in ambito
prevalentemente militare fra il 1942 –’43. Originariamente si chiamava
Movimento Funzionalista e si definiva sia anti borghese-capitalista che
anti-colletivista. Successivamente prese la denominazione “provvisoria”
(sic) di Movimento Comunista d’Italia mentre “Bandiera rossa” era la
testata dell’organo del movimento (ivi . pag. 21)- I gruppi di “Bandiera
rossa” vengono oggi indicati come trotzkisti (v. Wikipedia) e ciò non
corrisponde al vero in quanto B.r. era tutt’altro che
internazionalista. Scrive, fra l’altro il Guzzo: ..Non Mosca e né
Londra o Washington potevano essere Roma. La Roma erede della civiltà
di tutti i popoli. (ivi pag. 137).
[5] Cfr. P. Maurizio “A via
Rasella morirono due marxisti, ma il Pci ha preferito dimenticarli” in
“Il Giornale” del 19 agosto 1996.
[6] G. Genzius cit. pag. 167.
[7] M. Randaccio “Le finestre buie del ‘43” 1993, pag. 382.
[8] G. Genzius cit.pag. 183.
[9] G. Genzius cit. pag. 156
[10] Id. pag. 159
[11] W. Spinelli “Processo Kappler” 1994, pag. 163.
[12] P. Melograni-G.Amendola”Intervista sull’antifascismo” 1976, pag. 172.
[13] Cfr. G. genzius cit. pag. 128.
[14] E. Cione cit. pag. 446.
[15] P. Maurizio “In viaRasella azione di guerra” in “Il Giornale” del 12 ottobre 1997.
[16] W. Spinelli cit. pag. 179.
[17]
Alla fine degli anni ’40 , ebbe un certo scalpore la notizia che il
generale della Gnr, Nunzio Luna, risultava contemporaneamente
appartenente, sotto le false generalità di Nino Rossi alla 152° Brig.
Matteotti. Al giornale “Il Merlo Giallo” che lo accusava di doppio
gioco, il Luna replicò che…La polemica apertasi dopo la pubblicazione
dell’< Europeo > ha reso ormai di domino pubblico i contatti che
intercorsero tra elementi della resistenza (fra questi il Bonfantini) e
responsabili della Repubblica di Salò: i miei amici e colleghi ed io
agimmo nella scia del programma tracciato da Mussolini. Sono fiero di
quello che feci, anche se poi fallì, perché < l’animus > era tale
che forse mai come in quel momento noi servimmo la nostra Patria
(“Gobba a levante, luna calante” in “Il Merlo Giallo” del 1 feb. 1949,
pag, 2.
[18] Cfr. C. Silvestri “ Matteotti, Mussolini e il dramma italiano” 1947, pag. 296.
[19]
Il documento integrale è stato pubblicato dal periodico “Settimo
Giorno” dell’11 ottobre 1951, pag. 8 sotto il titolo “Il fondamentale
documento del 22 aprile 1945” a firma di carlo Silvestri.
[20] F. Moffo “Storia di un proclama” Roma 1995, pag. 109
[21]
Cfr. Gli operai parteciperanno alla gestione delle aziende in
“L’Unità” del 5 maggio 1945, pag. 1 – edizione lombarda. L’ex
socializzazione fascista prevedeva che il tasso di renumerazione del
capitale fosse annualmente fissato con D.M. (art.44). L’assegnazione
degli utili ai lavoratori calcolati anno per anno, non potevano eccedere
annualmente il 30% della retribuzione annua precedente. L’eventuale
eccedenza superiore al 30% veniva destinata ad una Cassa di
compensazione destinata a scopi di natura sociale e produttiva (art.
44).
[22] Nascita del Consiglio di gestione alla Soc. Magneti Marelli in “L’Unità” del 22 giugno 1945, ed. settentrionale.
[23]
Data la sua conformazione ottocentesca il sindacato, unico o meno che
fosse, non poteva certo parteggiare per l’istituto socializzatore in
quanto il ruolo di un sindacato più o meno confederale all’interno di
una azienda socializzata diventava praticamente nullo essendo demandato
al Consiglio di gestione aziendale interno ogni aspetto
rappresentativo.
[24] A. Fanfani L’attività economica nel progetto
della terza sottocommissione per la Costituzione italiana in
“Humanitas”- fasc. n. 12 del dic. 1946, pag. 1244.
[25] …il
corporativismo fascista ha di mira il pacifico svolgimento della sua
attività economica senz’ombra di violenza o di arbitrio privato. A.
Fanfani in “Il problema corporativo nella sua evoluzione”, 1942.
[26] “ Due strade” in Bandiera Rossa n. 1 dell’8 gennaio 1944.
Falange nazional-proletaria
Terza Via, rifiutiamo etichette "destra-sinistra" che sono ormai definizioni obsolete per i nostri tempi e che rappresentano due facce della stessa medaglia.
Dalla destra prenderemo il nazionalismo che per sua disgrazia ha sposato il capitalismo, dalla sinistra prenderemo il socialismo, la cui unione con l'internazionalismo è disastrosa. Così formeremo questo socialismo nazionale forza motrice di una nuova Germania e di una nuova Europa".
(Gregor Strasser)
giovedì 15 marzo 2012
domenica 15 gennaio 2012
Tullio Cianetti, il fascista di sinistra che faceva bastonare gli agrari
di Francesco Lamendola - 12/10/2009
Fonte: Arianna Editrice: www.ariannaeditrice.it
La Vulgata storiografica democratica ci ha tramandato l'immagine del fascismo come di un blocco monolitico, intimamente reazionario e nemico delle classi lavoratrici; di un fascismo al servizio delle classi dirigenti, in funzione antisocialista e antiproletaria; insomma, di un fascismo che tutto quanto, senza sfumature e senza distinguo, avrebbe svolto il ruolo di una compagnia di ventura al servizio degli agrari e degli industriali, esattamente come facevano i soldati mercenari del Rinascimento al servizio dei Signori.
Eppure ci sono molte, troppe cose che non quadrano, in questa ricostruzione dei fatti; troppe tessere del mosaico che non si riesce a collocare al posto giusto; troppe discrepanze e troppi elementi contraddittori rispetto alla tesi, semplicistica e manichea, che vorrebbe il fascismo come un blocco reazionario monolitico, impegnato nella cieca repressone delle classi lavoratrici, ad esclusivo beneficio dell'egoistico interesse dei capitalisti.
Una di queste anomalie - una delle tante - è rappresentata dalla biografia di un uomo come Tullio Cianetti, ministro delle Corporazioni nel 1943, che spese la sua intera carriera politica all'interno del fascismo per tentare di realizzare le sue idee circa il corporativismo e la socializzazione delle grandi aziende; ma che, probabilmente, il grande pubblico ricorda principalmente perché fu l'unico, subito dopo la storica seduta del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943, a scrivere a Mussolini per ritirare il proprio voto all'ordine del giorno Grandi, lettera che giunse sulla scrivania del duce nel mattino successivo.
Quella lettera, che si potrebbe attribuire a un mero calcolo di sopravvivenza personale, fu, invece, quasi certamente, il risultato di una crisi di coscienza e di una riflessione politica approfondita, che portarono il suo autore a rendersi conto di come, sottoscrivendo l'ordine del giorno Grandi - che, di fatto, sfiduciava Mussolini -, egli avesse fatto involontariamente il gioco di quegli esponenti conservatori del regime, legati a doppio filo all'alta finanza e alla grande industria, i quali erano ben disposti a sacrificare il suo capo, e, se necessario, il regime stesso, pur di scongiurare la prospettiva delle socializzazioni e, al tempo stesso, di salvare le proprie posizioni di potere.
Di fatto, sia la ritrattazione di Cianetti, che la stessa manovra cospirativa di Grandi, Bottai e Ciano, furono vanificate dal colpo di Stato del re, il quale, facendo arrestare Mussolini e nominando Badoglio quale nuovo capo del governo, aprì ben altre e più drammatiche prospettive per la vicenda nazionale, culminate nella tragedia dell'8 settembre, nella occupazione tedesca dell'Italia e nello scoppio della guerra civile del 1943-45.
Ad ogni modo, l'avere scritto quella lettera fu, per Cianetti, la salvezza, perché lui solo si salvò dalla condanna a morte nel processo di Verona, cavandosela con una condanna a trent'anni di reclusione; in pratica decaduta con la fine della Repubblica Sociale. A quel punto, all'ex ministro delle Corporazioni non rimase altro che emigrare, prima che un tribunale della Repubblica democratica aprisse un procedimento a suo carico. Si stabilì in Mozambico, dove morì il 7 agosto 1976, all'età di settantesette anni: era nato ad Assisi il 20 luglio 1899, figlio di un colono morto quand'egli aveva solo sei anni, mentre sua madre era costretta a vendere la terra al proprietario.
È un peccato che le memorie di Tullio Cianetti non abbiano conosciuto una maggiore notorietà: sarebbero servite a correggere alcuni tenaci e interessati pregiudizi circa la storia del sindacalismo fascista e, più in generale, circa la politica sociale del fascismo.
Fra l'altro, esse aiutano a capire come, all'interno del sindacalismo fascista, esistesserlo delle forze autenticamente rivoluzionarie e antiborghesi, che potremmo benissimo definire «di sinistra», se la lunga egemonia culturale del Partito Comunista nella storia dell'Italia nel secondo dopoguerra non avesse posto il monopolio su questa espressione, avocandola unicamente ad uso dei comunisti e dei socialisti.
Non solo. Da esse emerge un sindacalismo fascista che mantiene una fitta rete di contatti e di scambi con i sindacati e con i governi di vari Paesi d'Europa, sia dell'Occidente «plutocratico» (Francia e Gran Bretagna), sia della Germania nazista, sia di alcuni Paesi dell'Europa centro-orientale dominati dallo strapotere degli agrari (Romania, Iugoslavia); e ciò, in larga misura, indipendentemente dalle linee ufficiali della politica estera fascista, rivelando tutta una rete di amicizie, anche personali, e di reciproca volontà di collaborazione, tra il fascismo e taluni gruppi e personalità della sinistra operaia europea.
Ne emerge un quadro inaspettato, molto diverso da quello, schematico e manicheo, cui siamo abituati dalla Vulgata storiografica dominante, secondo la quale tutto il mondo avrebbe guardato al fascismo, sin dall'inizio, come a un regime reazionario e antipopolare, con il quale non solo i governi degli Stati democratici, ma anche i sindacati e le masse lavoratrici d'Europa, non avrebbero voluto avere niente a che fare.
Fra l'altro, Tullio Cianetti (già combattente nella Grande Guerra fra i «ragazzi del '99» col grado di tenente), che nel 1921 era stato tra i fondatori del Fascio di Assisi e nel 1924 pare avesse ordinato il pestaggio di un proprietario terriero fascista, che aveva fatto licenziare alcuni contadini - durante la guerra di Spagna fu tra quanti si sentirono quasi più vicini ai repubblicani che ai franchisti; tanto è vero che, prima del 1936, aveva intrattenuto rapporti amichevoli con la Federazione Anarchica Iberica di Barcellona. Se la politica estera dell'Italia non avesse reso inevitabile l'alleanza con Franco, il sindacalismo fascista facente capo a Cianetti avrebbe probabilmente operato una scelta di campo diversa, rispetto al confitto civile spagnolo.
E non si dimentichi che quegli anarchici spagnoli, ai quali un certo fascismo di sinistra guardava con un certo interesse, almeno prima del 1936, sarebbero andati incontro, non a caso, alla spietata repressione staliniana del 1937 (con il volonteroso sostegno del Partito Comunista italiano): fatto che, già di per sé, dovrebbe far riflettere i sostenitori della semplicistica identificazione del fascismo come regime interamente reazionario, e del comunismo - sovietico e non - come ideologia democratica e libertaria.
Ha scritto lo stesso Tullio Cianetti nelle propri «Memorie» (in: Enrico Landolfi, «Rosso imperiale» (Chieti, Solfanelli Editore, 1992, pp. 108, 111):
«Il materiale di studio che viaggiò da e per l'Italia fu grande e dette a me e agli altri capi sindacalisti la possibilità di stabilire una serie di contatti che si rivelarono proficui e promettenti…a Parigi si curavano alcuni elementi della CGT i quali, pur manifestando una avversione per il fascismo politico, erano propensi a studiarne le realizzazioni sociali. A Londra era più difficile avvicinare la casta delle Trade Unions, ma io stesso, allorché ne 1938 visitai la capitale britannica, ebbi qualche contatto con deputati laburisti, giornalisti e uomini dell'economia. La battagliera deputatessa inglese Wilkinson, che mi ricevette molto cordialmente nella sua abitazione, probabilmente non avvertì il calore con cui le chiesi di visitare privatamente le organizzazioni operaie italiane. Né io potevo dirle in presenza di testimoni (fossero pure miei amici) quanto serie fossero le intenzioni dei sindacalisti italiani e le finalità che mi spingevano a cercare i contatti con i sindacalisti europei. A quei tempi mi fu di prezioso aiuto e consiglio un vecchio "gildista" inglese, che amo ricordare anche in questo momento in cui le posizioni si sono nettamente capovolte: Kurt Walter, ex laburista di estrema sinistra, vivente da molti anni a Bordighera. Egli conobbe da vicino e studiò a fondo l'organizzazione sindacale del fascismo e si adoperò per farla conoscere ai suoi connazionali. Un suo libro intitolato "La lotta di classe in Italia" ebbe grande fortuna in Inghilterra, perché disse la verità senza incensamenti ed ostilità preconcette.[…]
Se le preoccupazioni riflettenti l'equilibrio mediterraneo non fossero esistite, io non so con quali sentimenti genuini noi fascisti avremmo dovuto assistere allo sconvolgimento della Penisola Iberica. La Spagna ha pagato con un terribile bagno di sangue la mancata sua partecipazione alla prima guerra mondiale. Infeudato al clero ed alla alta borghesia, il popolo spagnolo ha covato per anni una irrequietezza che è esplosa non appena il Paese è venuto a trovarsi improvvisamente privato di quelle catene tradizionali che l'avevano tenuto in soggezione… Il settore sociale italiano sentì subito il disagio di dover conciliare nel proprio spirito le esigenze della politica estera nazionale con le proprie ideologie e tendenze. A distanza di anni e quando sono venuti meno i vincoli della riservatezza obbligata, si può osservare che, se i sindacalisti italiani nutrivano preoccupazioni ed ostilità per gli eccessi di Barcellona, non avevano molte simpatie per Burgos.»
Una delle ragioni della «damnatio memoriae» di Tullio Cianetti, crediamo, è stata anche la sua adesione alla politica razziale adottata dal fascismo dopo il 1938. Giustizia vuole, però, che si riconosca come pure altri personaggi - non solo della politica, ma anche della cultura - i quali aderirono al manifesto della razza, e sottoscrissero i provvedimenti antisemiti, riuscirono a riciclarsi, dopo il 1945, nel sistema della Repubblica democratica e antifascista. Viene perciò il dubbio che il vero motivo della condanna senza appello, che la storiografia italiana ha emesso nei suoi confronti, abbia la sua vera origine nella volontà di mascherare il fatto che il sindacalismo fascista fu un'esperienza discutibile fin che si vuole, ma che ebbe una sua dignità e una sua ideologia che non si appiattiva per niente sugli interessi delle classi reazionarie, ma che cercava sinceramente una «terza via» tra bolscevismo e capitalismo di rapina.
Il discorso sarebbe terribilmente di attualità, ai nostri giorni; ed ecco perché vale la pena di tornare a parlare di personaggi come Tullio Cianetti, che, se non costituirono mai il gruppo dirigente maggioritario del regime fascista, conservarono tuttavia una certa autonomia e si adoperarono reiteratamente nel senso di sollecitare quelle radicali riforme strutturali, che il programma economico-sociale di Piazza San Sepolcro aveva lasciato intravedere.
Lo storico Claudio Moffa (l'unico professore universitario italiano ad aver sdoganato il dibattito sul revisionismo dell'Olocausto, invitando due volte Robert Faurisson a tenere dei corsi per i suoi studenti), si è occupato della figura di Tullio Cianetti in una concisa ma ricca biografia a lui dedicata nel «Dizionario biografico degli Italiani illustri», di cui riportiamo la parte centrale (Roma, a cura dell'Istituto per la Enciclopedia Italiana, vol. 25, 1981, pp. 170-172):
«[…] il Cianetti criticò quanti concepivano "il fascismo come la reazione della borghesia sul proletariato (Arch. centrale dello Stato, Carte Cianetti, B1). Per lui, invece, il principio fascista della collaborazione fra le classi richiedeva una lotta su due fronti: da una parte contro "l'ubriacatura bolscevica", e dall'altra contro quei capitalisti "che del capitale si servono per basse speculazioni contro la Nazione.
A causa di questa sua posizione, il Cianetti restò presto un isolato, in mezzo a un quadro dirigente del fascismo umbro composto in massima parte di avvocati, medici, proprietari terrieri. La sua iniziale carriera politica risultò così assai movimentata: criticò aspramente la "Terni" in seguito ad alcuni licenziamenti; ma poi ricevette un compenso dalla direzione delle Acciaierie, che egli sostenne nella vertenza con il Comune per la nuova convenzione idroelettrica. Promotore di alcune battaglie contro quelli che definiva episodi di "degenerazione" del fascismo, il Cianetti venne presto additato come "bolscevico tricolore" e come massone.
Nei primi mesi del 1924, accusati di aver promosso una spedizione punitiva contro un agrario fascista che aveva sfratato alcuni coloni, subì un attentato. A giugno l'assassinio di Matteotti provocò in lui una crisi di coscienza: si dimise dalla Milizia volontaria perla Sicurezza nazionale, manifestò il proposito di costituire una organizzazione sindacale autonoma, e prese contatti con sindacalisti "rossi". Venne espulso, sembra, dal partito fascista. Rientrato nei ranghi, ebbe nuovi scontri con il fascismo locale (duello con il deputato fascista Passavanti), che lo costrinsero a dare le dimissioni il 20 giugno del 1925.
Legatosi strettamente a E. Rossoni, segretario della Confederazione dei sindacati fascisti in un clima generale che era sempre meno favorevole a qualsivoglia iniziativa sindacale (patto Vidoni del 1925, legge Rocco del 1926), il Cianetti ripeté in tutte le successive sedi l'esperienza umbra: :il suo sindacalismo venne sempre respinto e sconfitto dagli apparati fascisti locali. A Siracusa, dove rimase dall'agosto 1925 al marzo 1926 come segretario provinciale dei sindacati fascisti, venne accusato di favorire elementi "socialistoidi". Trasferito a Carrara, fu boicottato dalla Federazione fascista locale, di cui denunciò "l'affiatamento" con gli industriali. Fu lo stesso ministero delle Corporazioni, questa volta, ad ordinare a Rossoni di trasferire Cianetti a Messina (5 agosto 1927). Da questa città, di cui denunciò le "tante camorre", pubblicando fra l'altro un articolo "antiplutocratico" che gli costò un secco richiamo di Rossoni (Arch. Centr., carte C., B2), fu allontanato nel settembre 1928. Diresse quindi, ma come commissario, i sindacati di Treviso e Matera. A Treviso tornò il 26 aprile 1929, come segretario dei sindacati dell'agricoltura. Il 1931 segnò un salto nella sua carriera: il 18 febbraio veniva nominato commissario della Federazione nazionale dei sindacati dell'industria del vetro e della ceramica; iniziò intanto a collaborare con "Il lavoro fascista"; a luglio, in coincidenza con l'apertura delle trattative per il contratto dei marmisti di Carrara, diventò segretario della Federazione nazionale dei sindacati delle industrie estrattive.
Anche in tale veste fu protagonista di battaglie in nome di quello che egli riteneva essere il "vero" sindacalismo fascista, dalle quali usciva sostanzialmente sconfitto: scrisse una monografia su "la vertenza degli operai del marmo di Carrara, aspramente criticata dagli industriali del settore; si pronunciò contro l'aumento del prezzo del marmo, e a favore della concentrazione delle più di trecento imprese marmifere di Carrara; manifestò infine riserve verso il cosiddetto "sistema Bedaux", variante del taylorismo, che conobbe in questo periodo larga applicazione in tutta l'industria italiana. Ma queste sue iniziative caddero nel vuoto. Più tardi, nell'aprile 1932, di nuovo a Carrara, ebbe luogo una agitazione operaia contro una riduzione salariale del 20%, pattuita dal sindacato. E il Cianetti, inviato prontamente sul posto per calmare le acque, promosse una riunione di operai che servì ai fascisti per individuare, bastonare e licenziare i lavoratori che protestavano contro l'accordo (Acquarone, p. 545; Arch. Stato, carte Cianetti, B3).
Il 22 aprile 1933, un giorno dopo la firma di un secondo accordo nel settore marmifero per una nuova riduzione salariale del 12%, il Cianetti passò a dirigere i sindacati industriali di Torino: fu questa l'esperienza che gli aprì la strada alla carica di presidente della Confederazione nazionale sindacati fascisti italiani, il 15 gennaio 1934. In tale veste, mentre intraprendeva un'opera di riorganizzazione di alcune corporazioni, denunciando il pericolo di burocratizzazione e il carrierismo dei giovani (Acquarone, p. 228), firmò il 26 aprile 1934 un accordo con la Confindustria che prevedeva una ulteriore riduzione del 7% dei salari, e si pronunciò contro l'abolizione del cottimo, richiesta da alcuni sindacalisti fascisti […]
Questa sua sostanziale fedeltà alle direttive emanate dalle alte gerarchie del regime gli permise di continuare l'ascesa: già vicepresidente dell'Istituto di previdenza sociale, e dell'Istituto nazionale fascista per l'assistenza e per gli infortuni sul lavoro, membro del Consiglio di amministrazione del Banco di Roma, dopo essere entrato grazie al "plebiscito" del marzo 1934 nel Parlamento, il Cianetti venne nominato il 7 novembre dello stesso anno membro del Gran Consiglio del fascismo, carica che ricoprì fino al processo di Verona. Nel 1935, ancora presidente della C.N.S.F.I., rappresentò i sindacati fascisti alla Conferenza internazionale del lavoro di Ginevra. Poi, dopo una serie di viaggi all'estero (Inghilterra, incontro con gli emigrati, 1937; Iugoslavia, Romania, Germania, visite di Stato, 1939),il 21 luglio 1939 venne nominato sottosegretario di Stato al ministero delle Corporazioni.
Giunto ormai al culmine della carriera, negli anni '35-'43, il Cianetti abbandonò quasi del tutto ogni contestazione sul terreno specificatamente sindacale, per collocarsi sul piano politico generale lungo due direttrici principali, che ispirarono la sua azione e la sua intensificata attività pubblicistica […], una politica estera di carattere oltranzista e bellicista, intesa come strumento di "emancipazione" della "grande proletaria": e, in questo quadro, il Cianetti sostenne l'impresa coloniale etiopica, da lui definita "la più rumorosa manifestazione di lotta di classe proiettata sul piano internazionale" (Carte Cianetti, B5),opponendosi, assieme a Farinacci, all'accettazione del piano Laval-Hoare (dicembre 1935); esaltò l'alleanza con la Germania nazista, criticando i suoi poco convinti assertori in Italia; e professò apertamente il razzismo antiebraico nei suoi discorsi ufficiali successivi al 1938.»
Entrata l'Italia nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, Cianetti, coerentemente con le posizioni espresse in numerosi articoli e discorsi in quest'ultima fase della sua carriera politica, salutò l'evento come l'inizio di una guerra di popolo, rivoluzionaria nella sua essenza: la più necessaria delle guerre rivoluzionarie, avente per obiettivo l'instaurazione di un ordine sociale più giusto a livello mondiale.
Nel 1943, in seguito a un rimpasto ministeriale e alle dimissioni, per malattia, del nuovo ministro designato, Tiengo, Cianetti salì alla carica di ministro delle Corporazioni e, in tale veste, ebbe in sorte di fronteggiare le prime agitazioni operaie del Nord Italia, verificatesi nel marzo di quell'anno. Pur essendo sempre stato un fascista di sinistra, non sfuggì, in almeno una occasione, ad una clamorosa contestazione da parte dei lavoratori, tanto che dovette fuggire sotto le sassate di un gruppo di operaie.
Ormai il regime stava franando, e Cianetti si convinse che l'unica maniera per puntellarlo era quella di ritornare alle origini sociali del movimento fascista, antiborghesi e anticapitaliste; e fu in tale prospettiva che cercò di svolgere opera di persuasione presso Mussolini.
In particolare, egli si sforzò di persuadere il titubante dittatore della necessità di affrettare la socializzazione delle grandi aziende (programma che sarà ripreso, e parzialmente realizzato, all'epoca della Repubblica Sociale Italiana). Pare che fosse stato stabilito di portare la decisione in sede di Gran Consiglio del fascismo, per il mese di agosto: se ciò è vero, molte cose diverrebbero chiare circa i retroscena del complotto del 25 luglio 1943 (cfr. il nostro precedente articolo: «Fu il progetto di socializzare l'economia italiana a provocare la crisi del 25 luglio 1943?», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
In particolare, giusta l'interpretazione dello storico Enrico Landolfi, diverrebbe chiaro il ruolo giocato da Casa Savoia quale garante degli interessi delle classi dirigenti, e specialmente della grande industria, dal momento che già un intervento di Vittorio Emanuele III era valso, prima del 25 luglio, a bloccare la candidatura dello stesso Cianetti alla carica di segretario del Partito Nazionale Fascista (carica poi andata a Carlo Scorza). Il che, fra l'altro, la dice lunga su quanto pesasse la volontà del re, anche nei più delicati assetti interni del fascismo: cosa che smentisce clamorosamente le tesi della Vulgata storiografica democratica, secondo la quale Vittorio Emanuele III sarebbe stato, per vent'anni, una sorta di ostaggio del fascismo, o, quanto meno, sarebbe stato isolato dai centri del potere effettivo e relegato in un ruolo puramente di rappresentanza.
Ha scritto Enrico Landolfi nel suo saggio «Tullio Cianetti. Un gerarca interlocutore della sinistra democratica e libertaria» (nel già citato «Rosso imperiale, pp. 111-113):
«Nell'aprile del '43, quando si trattò di sostituire alla segreteria del partito il giovanissimo Aldo Vidussoni triestino, mutilato, medaglia d'oro della guerra di Spagna nel carnet di Mussolini non figurava il nome di Carlo Scorza, bensì quello di Tullio Cianetti. L'intervento in extremis di Ciano e Farinacci impedì in extremis una nomina tanto caratterizzata a sinistra; ma a bloccare la presa del potere nel PNF dei "comunisti" cianettiani, contribuì, in modo certo determinante, il Quirinale, che fece notare al duce sembra con un personale pronunciamento del re, la "inopportunità e pericolosità" di una designazione del genere, anche perché i cianettiani erano partecipi non soltanto dei sindacati e delle corporazioni, ma perfino del pur accantonatissimo Gran Consiglio del Fascismo, rappresentati da uomini quali Rossoni, Pareschi e Gottardi (di altri non sappiamo, non ci sentiremmo però di escludere presenze ulteriori), tutti venticinqueluglisti e condannati a morte con sentenza eseguita sugli ultimi due per non aver ottemperati al suggerimento del ministro delle corporazioni di inviare a Mussolini una lettera di ritrattazione di un voto giudicato, dopo essere stato espresso, "di destra".
Come si vede, i Savoia, lungi dall'essere emarginati dal Littorio secondo quanto si pretende ancora oggi in sede storica, contavano tanto da potersi permettere veti efficaci relativamente a questioni di grande momento interne al partito dominante. Da rilevare che alcune settimane successive alla investiture di Scorza il capo del fascismo, irritato per tutta una serie di iniziative del segretario da lui non condivise, decise di opera - sempre con Cianetti - un nuovo cambio della guardia a Palazzo Wedekind - ma poi ritenne operazione ad altissimo rischio un braccio di ferro col sovrano, per l'occasione certo spalleggiato da settori moderati, di destra, "prudenti" del partito, mentre la situazione militare lambiva le sponde della tragedia e quella interna si appesantiva via via che trascorrevano i giorni.
Tuttavia, per controbilanciare la battuta d'arresto Mussolini non solo confermò l'uomo di Assisi alla testa del ministero corporativo ma accettò la sua idea di approntare immediatamente un progetto di socializzazione delle aziende, e in particolare di quelle grandi. Traguardo d realizzazione: l'ottobre (forse il giorno ventotto, anniversario della Marcia su Roma) Cianetti insistette per accorciare i tempi, motivando ciò con la necessità di fare presto per non dare tempo alle forze conservatrici, quelle sociali non meno di quelle politiche, di passare al contrattacco per paralizzare o insabbiare il disegno socializzatore. Il duce accettò le obiezioni e si impegnò a varare l'operazione in un Consiglio dei Ministri di agosto.
Ovviamente, il siluramento del capo del regime mandò tutto a monte, e - a giudizio di alcuni autorevoli esponenti politici e sindacali di allora, da noi interrogati anni or sono - non è affatto da escludere che il colpo fosse diretto anche contro la socializzazione, tanto più che niente vietava di immaginare che questa ristrutturazione spiccatamente rivoluzionaria fosse da collegare, in qualche modo, ai tentativi di Mussolini di indurre la Germania ad una pace separata con la Russia per concentrare tutte le energie dell'Asse contro il blocco occidentale. Egli, infatti, sempre più insisteva con il suo omologo e "dirimpettaio" di Berlino - parole buttate al vento - sui contenuti anticapitalistici e antiborghesi dell'alleanza tripartita italo-nippo-germanica. Naturalmente, la strategia delle componenti conservatrici del Reich era, casomai, esattamente l'opposto: mirava, cioè, alla pace separata con gli anglo-americani per stroncare le tendenze rivoluzionarie all'interno e ricacciare l'Urss nell'isolamento.
Sembra, quindi, che il voto del 25 luglio abbia avuto - quanto meno nelle intenzioni di alcuni dei promotori interni ed esterni al fascismo , anche un obiettivo reazionario. Certo, Cianetti deve aver pensato questo allorché, tornato a casa dopo la seduta del Gran Consiglio, scrive a Mussolini lka lettera di ritrattazione e, il giorno dopo, tenta vanamente di indurre gli amici - anche più critici di lui verso il Numero Uno e il suo stile di direzione - a seguirlo nella sua iniziativa di passaggio nel campo della minoranza.»
Riassumendo.
Tullio Cianetti fu sempre un personaggi tenace e battagliero, che si sforzò di imporre la propria linea sociale di sinistra all'interno del fascismo, e che sempre venne sconfitto, emarginato, perfino denigrato e allontanato.
Dotato di coraggio, anche fisico (sfide a duello) e di infaticabile energia, non si arrese e continuò a battersi per contrastare la linea sindacale conservatrice all'interno del partito, riuscendo a creare una specie di corrente che si riconosceva nelle sue idee e che, attraverso gli «osservatori sociali» (una figura istituzionale voluta da Cianetti), sparsi da New York a Budapest, da Londra a Rio de Janeiro, da Parigi a Madrid, teneva proficui rapporti di studio e, in parte, di collaborazione, con i movimenti sindacali di tutto il mondo.
C'è da chiedersi quanto sarebbe stata rapida, se non addirittura folgorante, la carriera politica di Cianetti, se egli non fosse rimasto coerente sulle proprie posizioni sindacali e sociali fino al principio degli anni Trenta, attirandosi l'inimicizia e, di conseguenza, l'ostracismo dei maggiorenti del partito. Sta di fatto che, dopo il 1932, egli cominciò ad allinearsi con le direttive dei vertici del regime, il che gli consentì una rapida ascesa fino alle più alte cariche del partito, compresa quella di membro del Gran Consiglio.
Bisogna comunque essere cauti nel sospettare questa svolta, se svolta vi fu, come motivata da semplice opportunismo, specialmente alla luce dell'azione politica svolta da Cianetti nei pochi mesi che lo videro alla carica di ministro delle Corporazioni, nel 1943, intesa a convincere Mussolini a riprendere un rigoroso programma sociale anticapitalista e antiborghese (il che era la logica conseguenza dell'individuazione della guerra italiana come guerra «proletaria» contro la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, come bene aveva visto un intellettuale coerente e rigoroso quale Berto Ricci, e non tanto contro l'Unione Sovietica).
Si potrebbe supporre, pertanto, che, al principio degli anni Trenta, Cianetti si sia apparentemente allineato alle posizioni conservatrici del regime, allo scopo di accedere alle cariche più importanti, dalle quali esercitare una pressione più efficace su Mussolini; e questo, dopo essere giunto alla conclusione che la sua donchisciottesca battaglia solitaria era stata sostanzialmente inutile, e tale sarebbe rimasta, finché egli non fosse riuscito ad arrivare nella «stanza dei bottoni».
Ma che Cianetti non fosse il solito gerarca cinico e privo di ideali, come quelli che ci vengono solitamente descritti dalla Vulgata storiografica; che egli avesse una dignità intellettuale e che fosse un personaggio umanamente dignitoso - nel quadro, s'intende, di un regime dittatoriale, che non è paragonabile ad una democrazia rappresentativa - esistono diversi episodi della sua biografia che stanno a testimoniarlo.
Abbiamo già visto l'accenno di Claudio Moffa ad una sua crisi di coscienza, verificatasi all'epoca del delitto Matteotti (e che non fu un episodio unico nel quadro del sindacalismo fascista; anche se, ovviamente, bisogna poi sceverare le crisi autentiche dalle pure e semplici strategie di sopravvivenza, nella prospettiva di una possibile caduta del regime).
In quella circostanza, Cianetti si spinse molto più in là della generica deprecazione del delitto - che, comunque, attribuiva a personalità del regime, contrariamente alla versione «ufficiale» del governo -, fino al punto da prendere contatti con quel che restava dei sindacati «rossi», in vista di una rinnovata azione sindacale post-mussoliniana.
Ha scritto in proposito Ferdinando Cordova, autore del fondamentale studio «Le origini dei sindacati fascisti» (Bari, Laterza, 1974, pp.267-68):
«Tullio Cianetti, fiduciario per la zona di Terni, si dimise dalla milizia e corsero perfino voci di suoi accordi segreti, al fine di dare al movimento sindacale la impronta delle cessate organizzazioni rosse e di realizzare il passaggio del sindacato nella Confederazione generale del lavoro. Fatto si è, secondo un informatore [Segreteria del duce, carteggio riservato], che "fu visto in compagnia di elementi dell'opposizione e del sovversivismo locale, propalò l'imminenza della caduta del Governo e addebitò ad alti gerarchi la responsabilità indiretta del delitto Matteotti".
I provvedimenti presi dal regime a suo carico furono l'esonero dai ruoli della Milizia e l'espulsione dai sindacati; misura, quest'ultima, che venne in seguito revocata, grazie all'intervento di alcuni importanti personaggi a lui favorevoli (Rossoni?). In ogni caso, nel 1925 - come si è visto - Cianetti venne spedito a Siracusa, per assumere la carica di segretario provinciale dei sindacati, e dove trovò ancora il modo di inquietare i gerarchi locali, facendosi nuovamente allontanare.
Non ci sembra la biografia di un cinico opportunista; ma, qualche che sia il giudizio che si voglia dare sulle sue idee sindacali e politiche, e in parte sui suoi stessi metodi, che episodi come questo stiano a mostrare chiaramente che si trattava di una personalità capace di pensiero autonomo e disposta a pagare il prezzo delle sue frequenti e talvolta azzardate insubordinazioni nei confronti del regime. Il tutto, sempre nell'ottica - criticabile fin che si vuole, ma sincera - che il fascismo «vero» non fosse quello, reazionario e filo-capitalista, verso il quale il regine si stava avviando, ma quello rivoluzionario e di sinistra delle origini.
Sì: ci sono ancora molte cose che non sappiamo, o che sappiamo poco e male, sulla storia sociale del fascismo e sui rapporti del regime sia con Casa Savoia e la grande industria italiana, sia con le organizzazioni dei lavoratori negli altri Paesi d'Europa. Vi è un fecondo campo di studio, qui, che attende solo di essere dissodato da una nuova generazione di giovani storici, finalmente liberi da un lungo e tenace condizionamento ideologico.
Sarebbe anche un modo per dare un volto meno generico e meno caricaturale a molti protagonisti del ventennio fascista; per mettere meglio a fuoco la loro umanità, le loro vere aspirazioni, i loro progetti, poi vanificati dalle tragiche vicende del 1943-45; per ridare dignità a uomini che fecero delle scelte certamente discutibili, ma non sempre e solo motivate da basse motivazioni di interesse personale, come sinora si è voluto far credere.
Fonte: Arianna Editrice: www.ariannaeditrice.it
La Vulgata storiografica democratica ci ha tramandato l'immagine del fascismo come di un blocco monolitico, intimamente reazionario e nemico delle classi lavoratrici; di un fascismo al servizio delle classi dirigenti, in funzione antisocialista e antiproletaria; insomma, di un fascismo che tutto quanto, senza sfumature e senza distinguo, avrebbe svolto il ruolo di una compagnia di ventura al servizio degli agrari e degli industriali, esattamente come facevano i soldati mercenari del Rinascimento al servizio dei Signori.
Eppure ci sono molte, troppe cose che non quadrano, in questa ricostruzione dei fatti; troppe tessere del mosaico che non si riesce a collocare al posto giusto; troppe discrepanze e troppi elementi contraddittori rispetto alla tesi, semplicistica e manichea, che vorrebbe il fascismo come un blocco reazionario monolitico, impegnato nella cieca repressone delle classi lavoratrici, ad esclusivo beneficio dell'egoistico interesse dei capitalisti.
Una di queste anomalie - una delle tante - è rappresentata dalla biografia di un uomo come Tullio Cianetti, ministro delle Corporazioni nel 1943, che spese la sua intera carriera politica all'interno del fascismo per tentare di realizzare le sue idee circa il corporativismo e la socializzazione delle grandi aziende; ma che, probabilmente, il grande pubblico ricorda principalmente perché fu l'unico, subito dopo la storica seduta del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943, a scrivere a Mussolini per ritirare il proprio voto all'ordine del giorno Grandi, lettera che giunse sulla scrivania del duce nel mattino successivo.
Quella lettera, che si potrebbe attribuire a un mero calcolo di sopravvivenza personale, fu, invece, quasi certamente, il risultato di una crisi di coscienza e di una riflessione politica approfondita, che portarono il suo autore a rendersi conto di come, sottoscrivendo l'ordine del giorno Grandi - che, di fatto, sfiduciava Mussolini -, egli avesse fatto involontariamente il gioco di quegli esponenti conservatori del regime, legati a doppio filo all'alta finanza e alla grande industria, i quali erano ben disposti a sacrificare il suo capo, e, se necessario, il regime stesso, pur di scongiurare la prospettiva delle socializzazioni e, al tempo stesso, di salvare le proprie posizioni di potere.
Di fatto, sia la ritrattazione di Cianetti, che la stessa manovra cospirativa di Grandi, Bottai e Ciano, furono vanificate dal colpo di Stato del re, il quale, facendo arrestare Mussolini e nominando Badoglio quale nuovo capo del governo, aprì ben altre e più drammatiche prospettive per la vicenda nazionale, culminate nella tragedia dell'8 settembre, nella occupazione tedesca dell'Italia e nello scoppio della guerra civile del 1943-45.
Ad ogni modo, l'avere scritto quella lettera fu, per Cianetti, la salvezza, perché lui solo si salvò dalla condanna a morte nel processo di Verona, cavandosela con una condanna a trent'anni di reclusione; in pratica decaduta con la fine della Repubblica Sociale. A quel punto, all'ex ministro delle Corporazioni non rimase altro che emigrare, prima che un tribunale della Repubblica democratica aprisse un procedimento a suo carico. Si stabilì in Mozambico, dove morì il 7 agosto 1976, all'età di settantesette anni: era nato ad Assisi il 20 luglio 1899, figlio di un colono morto quand'egli aveva solo sei anni, mentre sua madre era costretta a vendere la terra al proprietario.
È un peccato che le memorie di Tullio Cianetti non abbiano conosciuto una maggiore notorietà: sarebbero servite a correggere alcuni tenaci e interessati pregiudizi circa la storia del sindacalismo fascista e, più in generale, circa la politica sociale del fascismo.
Fra l'altro, esse aiutano a capire come, all'interno del sindacalismo fascista, esistesserlo delle forze autenticamente rivoluzionarie e antiborghesi, che potremmo benissimo definire «di sinistra», se la lunga egemonia culturale del Partito Comunista nella storia dell'Italia nel secondo dopoguerra non avesse posto il monopolio su questa espressione, avocandola unicamente ad uso dei comunisti e dei socialisti.
Non solo. Da esse emerge un sindacalismo fascista che mantiene una fitta rete di contatti e di scambi con i sindacati e con i governi di vari Paesi d'Europa, sia dell'Occidente «plutocratico» (Francia e Gran Bretagna), sia della Germania nazista, sia di alcuni Paesi dell'Europa centro-orientale dominati dallo strapotere degli agrari (Romania, Iugoslavia); e ciò, in larga misura, indipendentemente dalle linee ufficiali della politica estera fascista, rivelando tutta una rete di amicizie, anche personali, e di reciproca volontà di collaborazione, tra il fascismo e taluni gruppi e personalità della sinistra operaia europea.
Ne emerge un quadro inaspettato, molto diverso da quello, schematico e manicheo, cui siamo abituati dalla Vulgata storiografica dominante, secondo la quale tutto il mondo avrebbe guardato al fascismo, sin dall'inizio, come a un regime reazionario e antipopolare, con il quale non solo i governi degli Stati democratici, ma anche i sindacati e le masse lavoratrici d'Europa, non avrebbero voluto avere niente a che fare.
Fra l'altro, Tullio Cianetti (già combattente nella Grande Guerra fra i «ragazzi del '99» col grado di tenente), che nel 1921 era stato tra i fondatori del Fascio di Assisi e nel 1924 pare avesse ordinato il pestaggio di un proprietario terriero fascista, che aveva fatto licenziare alcuni contadini - durante la guerra di Spagna fu tra quanti si sentirono quasi più vicini ai repubblicani che ai franchisti; tanto è vero che, prima del 1936, aveva intrattenuto rapporti amichevoli con la Federazione Anarchica Iberica di Barcellona. Se la politica estera dell'Italia non avesse reso inevitabile l'alleanza con Franco, il sindacalismo fascista facente capo a Cianetti avrebbe probabilmente operato una scelta di campo diversa, rispetto al confitto civile spagnolo.
E non si dimentichi che quegli anarchici spagnoli, ai quali un certo fascismo di sinistra guardava con un certo interesse, almeno prima del 1936, sarebbero andati incontro, non a caso, alla spietata repressione staliniana del 1937 (con il volonteroso sostegno del Partito Comunista italiano): fatto che, già di per sé, dovrebbe far riflettere i sostenitori della semplicistica identificazione del fascismo come regime interamente reazionario, e del comunismo - sovietico e non - come ideologia democratica e libertaria.
Ha scritto lo stesso Tullio Cianetti nelle propri «Memorie» (in: Enrico Landolfi, «Rosso imperiale» (Chieti, Solfanelli Editore, 1992, pp. 108, 111):
«Il materiale di studio che viaggiò da e per l'Italia fu grande e dette a me e agli altri capi sindacalisti la possibilità di stabilire una serie di contatti che si rivelarono proficui e promettenti…a Parigi si curavano alcuni elementi della CGT i quali, pur manifestando una avversione per il fascismo politico, erano propensi a studiarne le realizzazioni sociali. A Londra era più difficile avvicinare la casta delle Trade Unions, ma io stesso, allorché ne 1938 visitai la capitale britannica, ebbi qualche contatto con deputati laburisti, giornalisti e uomini dell'economia. La battagliera deputatessa inglese Wilkinson, che mi ricevette molto cordialmente nella sua abitazione, probabilmente non avvertì il calore con cui le chiesi di visitare privatamente le organizzazioni operaie italiane. Né io potevo dirle in presenza di testimoni (fossero pure miei amici) quanto serie fossero le intenzioni dei sindacalisti italiani e le finalità che mi spingevano a cercare i contatti con i sindacalisti europei. A quei tempi mi fu di prezioso aiuto e consiglio un vecchio "gildista" inglese, che amo ricordare anche in questo momento in cui le posizioni si sono nettamente capovolte: Kurt Walter, ex laburista di estrema sinistra, vivente da molti anni a Bordighera. Egli conobbe da vicino e studiò a fondo l'organizzazione sindacale del fascismo e si adoperò per farla conoscere ai suoi connazionali. Un suo libro intitolato "La lotta di classe in Italia" ebbe grande fortuna in Inghilterra, perché disse la verità senza incensamenti ed ostilità preconcette.[…]
Se le preoccupazioni riflettenti l'equilibrio mediterraneo non fossero esistite, io non so con quali sentimenti genuini noi fascisti avremmo dovuto assistere allo sconvolgimento della Penisola Iberica. La Spagna ha pagato con un terribile bagno di sangue la mancata sua partecipazione alla prima guerra mondiale. Infeudato al clero ed alla alta borghesia, il popolo spagnolo ha covato per anni una irrequietezza che è esplosa non appena il Paese è venuto a trovarsi improvvisamente privato di quelle catene tradizionali che l'avevano tenuto in soggezione… Il settore sociale italiano sentì subito il disagio di dover conciliare nel proprio spirito le esigenze della politica estera nazionale con le proprie ideologie e tendenze. A distanza di anni e quando sono venuti meno i vincoli della riservatezza obbligata, si può osservare che, se i sindacalisti italiani nutrivano preoccupazioni ed ostilità per gli eccessi di Barcellona, non avevano molte simpatie per Burgos.»
Una delle ragioni della «damnatio memoriae» di Tullio Cianetti, crediamo, è stata anche la sua adesione alla politica razziale adottata dal fascismo dopo il 1938. Giustizia vuole, però, che si riconosca come pure altri personaggi - non solo della politica, ma anche della cultura - i quali aderirono al manifesto della razza, e sottoscrissero i provvedimenti antisemiti, riuscirono a riciclarsi, dopo il 1945, nel sistema della Repubblica democratica e antifascista. Viene perciò il dubbio che il vero motivo della condanna senza appello, che la storiografia italiana ha emesso nei suoi confronti, abbia la sua vera origine nella volontà di mascherare il fatto che il sindacalismo fascista fu un'esperienza discutibile fin che si vuole, ma che ebbe una sua dignità e una sua ideologia che non si appiattiva per niente sugli interessi delle classi reazionarie, ma che cercava sinceramente una «terza via» tra bolscevismo e capitalismo di rapina.
Il discorso sarebbe terribilmente di attualità, ai nostri giorni; ed ecco perché vale la pena di tornare a parlare di personaggi come Tullio Cianetti, che, se non costituirono mai il gruppo dirigente maggioritario del regime fascista, conservarono tuttavia una certa autonomia e si adoperarono reiteratamente nel senso di sollecitare quelle radicali riforme strutturali, che il programma economico-sociale di Piazza San Sepolcro aveva lasciato intravedere.
Lo storico Claudio Moffa (l'unico professore universitario italiano ad aver sdoganato il dibattito sul revisionismo dell'Olocausto, invitando due volte Robert Faurisson a tenere dei corsi per i suoi studenti), si è occupato della figura di Tullio Cianetti in una concisa ma ricca biografia a lui dedicata nel «Dizionario biografico degli Italiani illustri», di cui riportiamo la parte centrale (Roma, a cura dell'Istituto per la Enciclopedia Italiana, vol. 25, 1981, pp. 170-172):
«[…] il Cianetti criticò quanti concepivano "il fascismo come la reazione della borghesia sul proletariato (Arch. centrale dello Stato, Carte Cianetti, B1). Per lui, invece, il principio fascista della collaborazione fra le classi richiedeva una lotta su due fronti: da una parte contro "l'ubriacatura bolscevica", e dall'altra contro quei capitalisti "che del capitale si servono per basse speculazioni contro la Nazione.
A causa di questa sua posizione, il Cianetti restò presto un isolato, in mezzo a un quadro dirigente del fascismo umbro composto in massima parte di avvocati, medici, proprietari terrieri. La sua iniziale carriera politica risultò così assai movimentata: criticò aspramente la "Terni" in seguito ad alcuni licenziamenti; ma poi ricevette un compenso dalla direzione delle Acciaierie, che egli sostenne nella vertenza con il Comune per la nuova convenzione idroelettrica. Promotore di alcune battaglie contro quelli che definiva episodi di "degenerazione" del fascismo, il Cianetti venne presto additato come "bolscevico tricolore" e come massone.
Nei primi mesi del 1924, accusati di aver promosso una spedizione punitiva contro un agrario fascista che aveva sfratato alcuni coloni, subì un attentato. A giugno l'assassinio di Matteotti provocò in lui una crisi di coscienza: si dimise dalla Milizia volontaria perla Sicurezza nazionale, manifestò il proposito di costituire una organizzazione sindacale autonoma, e prese contatti con sindacalisti "rossi". Venne espulso, sembra, dal partito fascista. Rientrato nei ranghi, ebbe nuovi scontri con il fascismo locale (duello con il deputato fascista Passavanti), che lo costrinsero a dare le dimissioni il 20 giugno del 1925.
Legatosi strettamente a E. Rossoni, segretario della Confederazione dei sindacati fascisti in un clima generale che era sempre meno favorevole a qualsivoglia iniziativa sindacale (patto Vidoni del 1925, legge Rocco del 1926), il Cianetti ripeté in tutte le successive sedi l'esperienza umbra: :il suo sindacalismo venne sempre respinto e sconfitto dagli apparati fascisti locali. A Siracusa, dove rimase dall'agosto 1925 al marzo 1926 come segretario provinciale dei sindacati fascisti, venne accusato di favorire elementi "socialistoidi". Trasferito a Carrara, fu boicottato dalla Federazione fascista locale, di cui denunciò "l'affiatamento" con gli industriali. Fu lo stesso ministero delle Corporazioni, questa volta, ad ordinare a Rossoni di trasferire Cianetti a Messina (5 agosto 1927). Da questa città, di cui denunciò le "tante camorre", pubblicando fra l'altro un articolo "antiplutocratico" che gli costò un secco richiamo di Rossoni (Arch. Centr., carte C., B2), fu allontanato nel settembre 1928. Diresse quindi, ma come commissario, i sindacati di Treviso e Matera. A Treviso tornò il 26 aprile 1929, come segretario dei sindacati dell'agricoltura. Il 1931 segnò un salto nella sua carriera: il 18 febbraio veniva nominato commissario della Federazione nazionale dei sindacati dell'industria del vetro e della ceramica; iniziò intanto a collaborare con "Il lavoro fascista"; a luglio, in coincidenza con l'apertura delle trattative per il contratto dei marmisti di Carrara, diventò segretario della Federazione nazionale dei sindacati delle industrie estrattive.
Anche in tale veste fu protagonista di battaglie in nome di quello che egli riteneva essere il "vero" sindacalismo fascista, dalle quali usciva sostanzialmente sconfitto: scrisse una monografia su "la vertenza degli operai del marmo di Carrara, aspramente criticata dagli industriali del settore; si pronunciò contro l'aumento del prezzo del marmo, e a favore della concentrazione delle più di trecento imprese marmifere di Carrara; manifestò infine riserve verso il cosiddetto "sistema Bedaux", variante del taylorismo, che conobbe in questo periodo larga applicazione in tutta l'industria italiana. Ma queste sue iniziative caddero nel vuoto. Più tardi, nell'aprile 1932, di nuovo a Carrara, ebbe luogo una agitazione operaia contro una riduzione salariale del 20%, pattuita dal sindacato. E il Cianetti, inviato prontamente sul posto per calmare le acque, promosse una riunione di operai che servì ai fascisti per individuare, bastonare e licenziare i lavoratori che protestavano contro l'accordo (Acquarone, p. 545; Arch. Stato, carte Cianetti, B3).
Il 22 aprile 1933, un giorno dopo la firma di un secondo accordo nel settore marmifero per una nuova riduzione salariale del 12%, il Cianetti passò a dirigere i sindacati industriali di Torino: fu questa l'esperienza che gli aprì la strada alla carica di presidente della Confederazione nazionale sindacati fascisti italiani, il 15 gennaio 1934. In tale veste, mentre intraprendeva un'opera di riorganizzazione di alcune corporazioni, denunciando il pericolo di burocratizzazione e il carrierismo dei giovani (Acquarone, p. 228), firmò il 26 aprile 1934 un accordo con la Confindustria che prevedeva una ulteriore riduzione del 7% dei salari, e si pronunciò contro l'abolizione del cottimo, richiesta da alcuni sindacalisti fascisti […]
Questa sua sostanziale fedeltà alle direttive emanate dalle alte gerarchie del regime gli permise di continuare l'ascesa: già vicepresidente dell'Istituto di previdenza sociale, e dell'Istituto nazionale fascista per l'assistenza e per gli infortuni sul lavoro, membro del Consiglio di amministrazione del Banco di Roma, dopo essere entrato grazie al "plebiscito" del marzo 1934 nel Parlamento, il Cianetti venne nominato il 7 novembre dello stesso anno membro del Gran Consiglio del fascismo, carica che ricoprì fino al processo di Verona. Nel 1935, ancora presidente della C.N.S.F.I., rappresentò i sindacati fascisti alla Conferenza internazionale del lavoro di Ginevra. Poi, dopo una serie di viaggi all'estero (Inghilterra, incontro con gli emigrati, 1937; Iugoslavia, Romania, Germania, visite di Stato, 1939),il 21 luglio 1939 venne nominato sottosegretario di Stato al ministero delle Corporazioni.
Giunto ormai al culmine della carriera, negli anni '35-'43, il Cianetti abbandonò quasi del tutto ogni contestazione sul terreno specificatamente sindacale, per collocarsi sul piano politico generale lungo due direttrici principali, che ispirarono la sua azione e la sua intensificata attività pubblicistica […], una politica estera di carattere oltranzista e bellicista, intesa come strumento di "emancipazione" della "grande proletaria": e, in questo quadro, il Cianetti sostenne l'impresa coloniale etiopica, da lui definita "la più rumorosa manifestazione di lotta di classe proiettata sul piano internazionale" (Carte Cianetti, B5),opponendosi, assieme a Farinacci, all'accettazione del piano Laval-Hoare (dicembre 1935); esaltò l'alleanza con la Germania nazista, criticando i suoi poco convinti assertori in Italia; e professò apertamente il razzismo antiebraico nei suoi discorsi ufficiali successivi al 1938.»
Entrata l'Italia nella seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, Cianetti, coerentemente con le posizioni espresse in numerosi articoli e discorsi in quest'ultima fase della sua carriera politica, salutò l'evento come l'inizio di una guerra di popolo, rivoluzionaria nella sua essenza: la più necessaria delle guerre rivoluzionarie, avente per obiettivo l'instaurazione di un ordine sociale più giusto a livello mondiale.
Nel 1943, in seguito a un rimpasto ministeriale e alle dimissioni, per malattia, del nuovo ministro designato, Tiengo, Cianetti salì alla carica di ministro delle Corporazioni e, in tale veste, ebbe in sorte di fronteggiare le prime agitazioni operaie del Nord Italia, verificatesi nel marzo di quell'anno. Pur essendo sempre stato un fascista di sinistra, non sfuggì, in almeno una occasione, ad una clamorosa contestazione da parte dei lavoratori, tanto che dovette fuggire sotto le sassate di un gruppo di operaie.
Ormai il regime stava franando, e Cianetti si convinse che l'unica maniera per puntellarlo era quella di ritornare alle origini sociali del movimento fascista, antiborghesi e anticapitaliste; e fu in tale prospettiva che cercò di svolgere opera di persuasione presso Mussolini.
In particolare, egli si sforzò di persuadere il titubante dittatore della necessità di affrettare la socializzazione delle grandi aziende (programma che sarà ripreso, e parzialmente realizzato, all'epoca della Repubblica Sociale Italiana). Pare che fosse stato stabilito di portare la decisione in sede di Gran Consiglio del fascismo, per il mese di agosto: se ciò è vero, molte cose diverrebbero chiare circa i retroscena del complotto del 25 luglio 1943 (cfr. il nostro precedente articolo: «Fu il progetto di socializzare l'economia italiana a provocare la crisi del 25 luglio 1943?», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
In particolare, giusta l'interpretazione dello storico Enrico Landolfi, diverrebbe chiaro il ruolo giocato da Casa Savoia quale garante degli interessi delle classi dirigenti, e specialmente della grande industria, dal momento che già un intervento di Vittorio Emanuele III era valso, prima del 25 luglio, a bloccare la candidatura dello stesso Cianetti alla carica di segretario del Partito Nazionale Fascista (carica poi andata a Carlo Scorza). Il che, fra l'altro, la dice lunga su quanto pesasse la volontà del re, anche nei più delicati assetti interni del fascismo: cosa che smentisce clamorosamente le tesi della Vulgata storiografica democratica, secondo la quale Vittorio Emanuele III sarebbe stato, per vent'anni, una sorta di ostaggio del fascismo, o, quanto meno, sarebbe stato isolato dai centri del potere effettivo e relegato in un ruolo puramente di rappresentanza.
Ha scritto Enrico Landolfi nel suo saggio «Tullio Cianetti. Un gerarca interlocutore della sinistra democratica e libertaria» (nel già citato «Rosso imperiale, pp. 111-113):
«Nell'aprile del '43, quando si trattò di sostituire alla segreteria del partito il giovanissimo Aldo Vidussoni triestino, mutilato, medaglia d'oro della guerra di Spagna nel carnet di Mussolini non figurava il nome di Carlo Scorza, bensì quello di Tullio Cianetti. L'intervento in extremis di Ciano e Farinacci impedì in extremis una nomina tanto caratterizzata a sinistra; ma a bloccare la presa del potere nel PNF dei "comunisti" cianettiani, contribuì, in modo certo determinante, il Quirinale, che fece notare al duce sembra con un personale pronunciamento del re, la "inopportunità e pericolosità" di una designazione del genere, anche perché i cianettiani erano partecipi non soltanto dei sindacati e delle corporazioni, ma perfino del pur accantonatissimo Gran Consiglio del Fascismo, rappresentati da uomini quali Rossoni, Pareschi e Gottardi (di altri non sappiamo, non ci sentiremmo però di escludere presenze ulteriori), tutti venticinqueluglisti e condannati a morte con sentenza eseguita sugli ultimi due per non aver ottemperati al suggerimento del ministro delle corporazioni di inviare a Mussolini una lettera di ritrattazione di un voto giudicato, dopo essere stato espresso, "di destra".
Come si vede, i Savoia, lungi dall'essere emarginati dal Littorio secondo quanto si pretende ancora oggi in sede storica, contavano tanto da potersi permettere veti efficaci relativamente a questioni di grande momento interne al partito dominante. Da rilevare che alcune settimane successive alla investiture di Scorza il capo del fascismo, irritato per tutta una serie di iniziative del segretario da lui non condivise, decise di opera - sempre con Cianetti - un nuovo cambio della guardia a Palazzo Wedekind - ma poi ritenne operazione ad altissimo rischio un braccio di ferro col sovrano, per l'occasione certo spalleggiato da settori moderati, di destra, "prudenti" del partito, mentre la situazione militare lambiva le sponde della tragedia e quella interna si appesantiva via via che trascorrevano i giorni.
Tuttavia, per controbilanciare la battuta d'arresto Mussolini non solo confermò l'uomo di Assisi alla testa del ministero corporativo ma accettò la sua idea di approntare immediatamente un progetto di socializzazione delle aziende, e in particolare di quelle grandi. Traguardo d realizzazione: l'ottobre (forse il giorno ventotto, anniversario della Marcia su Roma) Cianetti insistette per accorciare i tempi, motivando ciò con la necessità di fare presto per non dare tempo alle forze conservatrici, quelle sociali non meno di quelle politiche, di passare al contrattacco per paralizzare o insabbiare il disegno socializzatore. Il duce accettò le obiezioni e si impegnò a varare l'operazione in un Consiglio dei Ministri di agosto.
Ovviamente, il siluramento del capo del regime mandò tutto a monte, e - a giudizio di alcuni autorevoli esponenti politici e sindacali di allora, da noi interrogati anni or sono - non è affatto da escludere che il colpo fosse diretto anche contro la socializzazione, tanto più che niente vietava di immaginare che questa ristrutturazione spiccatamente rivoluzionaria fosse da collegare, in qualche modo, ai tentativi di Mussolini di indurre la Germania ad una pace separata con la Russia per concentrare tutte le energie dell'Asse contro il blocco occidentale. Egli, infatti, sempre più insisteva con il suo omologo e "dirimpettaio" di Berlino - parole buttate al vento - sui contenuti anticapitalistici e antiborghesi dell'alleanza tripartita italo-nippo-germanica. Naturalmente, la strategia delle componenti conservatrici del Reich era, casomai, esattamente l'opposto: mirava, cioè, alla pace separata con gli anglo-americani per stroncare le tendenze rivoluzionarie all'interno e ricacciare l'Urss nell'isolamento.
Sembra, quindi, che il voto del 25 luglio abbia avuto - quanto meno nelle intenzioni di alcuni dei promotori interni ed esterni al fascismo , anche un obiettivo reazionario. Certo, Cianetti deve aver pensato questo allorché, tornato a casa dopo la seduta del Gran Consiglio, scrive a Mussolini lka lettera di ritrattazione e, il giorno dopo, tenta vanamente di indurre gli amici - anche più critici di lui verso il Numero Uno e il suo stile di direzione - a seguirlo nella sua iniziativa di passaggio nel campo della minoranza.»
Riassumendo.
Tullio Cianetti fu sempre un personaggi tenace e battagliero, che si sforzò di imporre la propria linea sociale di sinistra all'interno del fascismo, e che sempre venne sconfitto, emarginato, perfino denigrato e allontanato.
Dotato di coraggio, anche fisico (sfide a duello) e di infaticabile energia, non si arrese e continuò a battersi per contrastare la linea sindacale conservatrice all'interno del partito, riuscendo a creare una specie di corrente che si riconosceva nelle sue idee e che, attraverso gli «osservatori sociali» (una figura istituzionale voluta da Cianetti), sparsi da New York a Budapest, da Londra a Rio de Janeiro, da Parigi a Madrid, teneva proficui rapporti di studio e, in parte, di collaborazione, con i movimenti sindacali di tutto il mondo.
C'è da chiedersi quanto sarebbe stata rapida, se non addirittura folgorante, la carriera politica di Cianetti, se egli non fosse rimasto coerente sulle proprie posizioni sindacali e sociali fino al principio degli anni Trenta, attirandosi l'inimicizia e, di conseguenza, l'ostracismo dei maggiorenti del partito. Sta di fatto che, dopo il 1932, egli cominciò ad allinearsi con le direttive dei vertici del regime, il che gli consentì una rapida ascesa fino alle più alte cariche del partito, compresa quella di membro del Gran Consiglio.
Bisogna comunque essere cauti nel sospettare questa svolta, se svolta vi fu, come motivata da semplice opportunismo, specialmente alla luce dell'azione politica svolta da Cianetti nei pochi mesi che lo videro alla carica di ministro delle Corporazioni, nel 1943, intesa a convincere Mussolini a riprendere un rigoroso programma sociale anticapitalista e antiborghese (il che era la logica conseguenza dell'individuazione della guerra italiana come guerra «proletaria» contro la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, come bene aveva visto un intellettuale coerente e rigoroso quale Berto Ricci, e non tanto contro l'Unione Sovietica).
Si potrebbe supporre, pertanto, che, al principio degli anni Trenta, Cianetti si sia apparentemente allineato alle posizioni conservatrici del regime, allo scopo di accedere alle cariche più importanti, dalle quali esercitare una pressione più efficace su Mussolini; e questo, dopo essere giunto alla conclusione che la sua donchisciottesca battaglia solitaria era stata sostanzialmente inutile, e tale sarebbe rimasta, finché egli non fosse riuscito ad arrivare nella «stanza dei bottoni».
Ma che Cianetti non fosse il solito gerarca cinico e privo di ideali, come quelli che ci vengono solitamente descritti dalla Vulgata storiografica; che egli avesse una dignità intellettuale e che fosse un personaggio umanamente dignitoso - nel quadro, s'intende, di un regime dittatoriale, che non è paragonabile ad una democrazia rappresentativa - esistono diversi episodi della sua biografia che stanno a testimoniarlo.
Abbiamo già visto l'accenno di Claudio Moffa ad una sua crisi di coscienza, verificatasi all'epoca del delitto Matteotti (e che non fu un episodio unico nel quadro del sindacalismo fascista; anche se, ovviamente, bisogna poi sceverare le crisi autentiche dalle pure e semplici strategie di sopravvivenza, nella prospettiva di una possibile caduta del regime).
In quella circostanza, Cianetti si spinse molto più in là della generica deprecazione del delitto - che, comunque, attribuiva a personalità del regime, contrariamente alla versione «ufficiale» del governo -, fino al punto da prendere contatti con quel che restava dei sindacati «rossi», in vista di una rinnovata azione sindacale post-mussoliniana.
Ha scritto in proposito Ferdinando Cordova, autore del fondamentale studio «Le origini dei sindacati fascisti» (Bari, Laterza, 1974, pp.267-68):
«Tullio Cianetti, fiduciario per la zona di Terni, si dimise dalla milizia e corsero perfino voci di suoi accordi segreti, al fine di dare al movimento sindacale la impronta delle cessate organizzazioni rosse e di realizzare il passaggio del sindacato nella Confederazione generale del lavoro. Fatto si è, secondo un informatore [Segreteria del duce, carteggio riservato], che "fu visto in compagnia di elementi dell'opposizione e del sovversivismo locale, propalò l'imminenza della caduta del Governo e addebitò ad alti gerarchi la responsabilità indiretta del delitto Matteotti".
I provvedimenti presi dal regime a suo carico furono l'esonero dai ruoli della Milizia e l'espulsione dai sindacati; misura, quest'ultima, che venne in seguito revocata, grazie all'intervento di alcuni importanti personaggi a lui favorevoli (Rossoni?). In ogni caso, nel 1925 - come si è visto - Cianetti venne spedito a Siracusa, per assumere la carica di segretario provinciale dei sindacati, e dove trovò ancora il modo di inquietare i gerarchi locali, facendosi nuovamente allontanare.
Non ci sembra la biografia di un cinico opportunista; ma, qualche che sia il giudizio che si voglia dare sulle sue idee sindacali e politiche, e in parte sui suoi stessi metodi, che episodi come questo stiano a mostrare chiaramente che si trattava di una personalità capace di pensiero autonomo e disposta a pagare il prezzo delle sue frequenti e talvolta azzardate insubordinazioni nei confronti del regime. Il tutto, sempre nell'ottica - criticabile fin che si vuole, ma sincera - che il fascismo «vero» non fosse quello, reazionario e filo-capitalista, verso il quale il regine si stava avviando, ma quello rivoluzionario e di sinistra delle origini.
Sì: ci sono ancora molte cose che non sappiamo, o che sappiamo poco e male, sulla storia sociale del fascismo e sui rapporti del regime sia con Casa Savoia e la grande industria italiana, sia con le organizzazioni dei lavoratori negli altri Paesi d'Europa. Vi è un fecondo campo di studio, qui, che attende solo di essere dissodato da una nuova generazione di giovani storici, finalmente liberi da un lungo e tenace condizionamento ideologico.
Sarebbe anche un modo per dare un volto meno generico e meno caricaturale a molti protagonisti del ventennio fascista; per mettere meglio a fuoco la loro umanità, le loro vere aspirazioni, i loro progetti, poi vanificati dalle tragiche vicende del 1943-45; per ridare dignità a uomini che fecero delle scelte certamente discutibili, ma non sempre e solo motivate da basse motivazioni di interesse personale, come sinora si è voluto far credere.
Quando i fascisti di sinistra sognavano di fare la guerra di Spagna contro Franco
di Francesco Lamendola - 19/05/2011
Fonte: Arianna Editrice: www.ariannaeditrice.it
C’è stato un tempo in cui intellettuali e militanti del fascismo pensavano che il regime sarebbe intervenuto nella guerra civile spagnola non dalla parte dei franchisti, ma al fianco dei repubblicani; cosa che essi desideravano e speravano ardentemente.
Detta così, nel contesto della Vulgata dominante liberaldemocratica, sembra quasi una esercitazione di ucronia, la “scienza” della storia possibile, ma non effettivamente accaduta, teorizzata dal filosofo francese Charles Renouvier e sviluppata da diversi scrittori e studiosi, a cominciare da Tito Livio, il quale si domandava che cosa sarebbe accaduto se Alessandro Magno avesse puntato ad espandere il regno macedone non verso Oriente, cioè verso l’Impero Persiano e l’India, ma verso Occidente, ossia in direzione di Roma.
Infatti, secondo la Vulgata liberaldemocratica, il fascismo è sempre stato uguale a se stesso: un regime becero e monolitico, sistematicamente arroccato a sostegno degli interessi delle classi possidenti e sostanzialmente nemico di quelle lavoratrici; un regime che non poteva non schierarsi dalla parte di Franco, così come - qualche anno dopo - non avrebbe potuto non fare la sua scelta di campo al fianco di Hitler.
Ora, a parte il fatto che resta tutto da spiegare, in una simile prospettiva, come questo regime anti-popolare abbia potuto reggersi per vent’anni e godere di un vasto sostegno popolare, che venne meno solamente sotto il peso di una sconfitta militare schiacciante, è chiaro che l’errore fondamentale consiste nel considerare il fascismo come un tutto omogeneo e nel non voler distinguere tra le varie componenti del fascismo come movimento e quelle del fascismo come governo prima, come regime poi.
La maggior parte dei testi divulgativi, a cominciare da quelli di uso scolastico, sono ancora basati su una tale impostazione; quelli specialistici si degnano di riconoscere una certa eterogeneità ideologica e una certa complessità sociale del fenomeno “fascismo”, anche se ben raramente sfuggono alla tentazione di appiattirsi sull’ideologia dei vincitori e di fare di tutta l’erba un fascio, condannando come un tragico errore, come una crociana malattia della società italiana, quel ventennio della nostra storia, senza darsi troppa pena nel distinguere, nel puntualizzare e nel precisare categorie politiche e sociologiche assai generiche.
Il fascismo di sinistra, in particolare, non è mai stato riconosciuto come una componente organica e coerente, con una sua dignità intellettuale e politica, distinta dal fascismo-regime e addirittura alternativa all’orientamento borghese-conservatore della dittatura; né si è evidenziata a sufficienza la continuità esistente fra esso e le origini sociali, rivoluzionarie e antiborghesi del fascismo delle origini: quello di Piazza San Sepolcro.
Inoltre, si è parlato del fascismo di sinistra (in genere mettendo l’espressione tra virgolette, come si trattasse di una cosa da non prendere troppo sul serio) più sul versante letterario, magari per spiegare la successiva, “miracolosa” conversione di scrittori passati alla sinistra socialcomunista e divenuti poi famosi, come Elio Vittorini e Vasco Pratolini, che non su quello propriamente politico e sindacale; perché, se si fosse approfondito quest’ultimo aspetto, si sarebbe probabilmente dovuto ammettere che aveva solide radici popolari, non solo nelle campagne, ma anche nelle fabbriche, il che avrebbe fatto cadere la manichea e semplicistica equivalenza tra fascismo e conservatorismo da un lato, e fra socialcomunismo e progressismo, dall’altro.
Sarebbe imbarazzante, per la Vulgata storica oggi dominante, ammettere che non tutti gli squadristi consideravano i contadini come i loro nemici naturali, ma che alcuni vedevano invece questi ultimi proprio negli agrari (cfr. Il nostro precedente articolo: «Tullio Cianetti, il fascista che bastonare gli agrari», apparso sul sito di Arianna Editrice il 12/10/2009); o che la caduta di Mussolini, il 25 luglio del 1943, forse fu pianificata dall’alta borghesia precisamente per impedirgli di riprendere il programma sociale delle origini (cfr. il nostro articolo: «Fu il progetto di socializzare l’economia italiana a provocare la crisi del 25 luglio 1943?», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 16/11/2008).
Su questi temi sono usciti alcuni eccellenti studi, come i saggi contenuti nel volume di Enrico Landolfi «Rosso imperiale», i quali, però, non sono riusciti a scalfire sostanzialmente l’impianto tradizionale della storiografia italiana sul fascismo, ma che hanno semmai coinvolto una piccola minoranza di storici, lasciando fuori la grande massa del pubblico.
Eppure, il fascismo di sinistra, negli anni Trenta e fino ala guerra di Spagna, fu una componente importante del fascismo, sia sul piano culturale, sia sul piano sociale e sindacale; filosofi come Ugo Spirito e sindacalisti come Tullio Cianetti puntavano a una ripresa del programma corporativo in chiave integrale; uomini di cultura come Berto Ricci, dalle colonne di una prestigiosa rivista come «L’universale», tenevano viva l’anima originaria del regime, sovversiva e antiborghese; figure prestigiose come Ardengo Soffici e Giovanni Papini gravitavano in quella direzione; giornalisti di prim’ordine, come Concetto Pettinato, guardavano nella stessa direzione e auspicavano non già una alleanza dell’Italia fascista con la Germania di Hitler, ma, semmai, con l’Unione Sovietica, o, quanto meno, una politica di collaborazione con essa, parallela al bolscevismo.
E non è che questi ambienti fossero del tutto isolati o che queste voci chiamassero nel deserto; sia Bottai, sia lo stesso Mussolini tenevano in un certo conto il fascismo di sinistra, dialogavano con esso e, per certi aspetti, lo proteggevano; tanto è vero che, dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, questi temi e queste aspirazioni sarebbero tornati prepotentemente alla ribalta e, addirittura, sarebbero entrati a far parte del programma del Manifesto di Verona - anche perché, questo è vero, la separazione dalla monarchia e dagli ambienti conservatori ad essa vicini aveva reso le cose più chiare e, in un certo senso, aveva reso inevitabile l’accentuazione delle tendenze sociali e antiborghesi del governo di Salò.
Scrivono Romano Luperini e altri (in: «La scrittura e l’interpretazione», Palermo, Palumbo & C. Editore, 2011, vol. 6, pp. 51-52):
«Il fascismo va al potere utilizzando il sovversivismo piccolo-borghese; ma, diventando regime, tende poi a soffocarlo. Si spezza così il legame fra avanguardia e sovversivismo, fra impegno sperimentale e movimento di lotta. Se si aggiunge che nel generale ritorno al’ordine le avanguardie sono mal viste o combattute, si può capire il motivo per cui esse, dopo il 1925, continuino a sopravvivere solo in forme moderate, trasformandosi in movimenti di fronda interni al fascismo.
È così per “stracittà” e per “Strapaese”, che si inseriscono nel dibattito fascista sull’ordine di priorità e di importanza da assegnare a campagna e industria, a politica rurale e modernizzazione “Stracittà” recupera il modernismo cittadino dei futuristi, “Strapaese” prosegue il sovversivismo antiborghese e campagnolo della tradizione lacerbiana (e infatti è appoggiato da Paini e Soffici).
Il primo dei due movimenti a darsi una rivista “Strapaese” attraverso “Il Selvaggio”, fondato dal pittore Mino Maccari a Colle Val d’Elsa (Siena) nel 1924,. La rivista fu poi spostata a Firenze e per un certo periodo anche a Torino ed ebbe lunga vita (sino al 1943). Dopo una prima fase più spiccatamente politica, divenne prevalentemente artistica e letteraria, conservando però un acceso fervore antiborghese. Su di essa Maccari attaccava, con la penna e con le immagini, le tendenze conservatrici del regime e la propensione del fascismo a diventare istituzione. […]
La tendenza strapaesana continua negli anni Trenta passando anche ad altre riviste, come “L’Italiano” di Longanesi, e soprattutto influenzando i giovani “fascisti di sinistra” che ne riprendono l’aspetto ribellistico e utopico. Si tratta di un gruppo di giovani, attivi negli anni Trenta a Firenze: Berto Ricci, Dino Garrone, e gli scrittori Elio Vittorini, Romano Bilenchi, Vasco parato lini. Essi collaboravano a “L’universale” (1931-36), rivista diretta da Berto Ricci, e a “Il Bargello”, organo settimanale della federazione fascista di Firenze.
I giovani fascisti di sinistra sostenevano la necessità che il fascismo approfondisse le proprie radici popolari e si avvicinasse al socialismo e all’URSS; proponevano di espropriare i possidenti e di dare la terra ai contadini e allo Stato; erano portatori di un programma utopico volto ad abolire le differenze fra lavoro manuale e intellettuale. Il popolo è per loro sinonimo di cultura, di civiltà, di umanità. In base a tale credo umanitario e a tale acceso populismo, , si battevano contro i caratteri elitari della riforma Gentile e della cultura dell’idealismo: affermavano l’esigenza per l’intellettuale d’impegnarsi politicamente rivendicando il diritto al dissenso all’interno del fascismo. “L’universale” e la terza pagina del “Bargello” proponevano insomma la figura del “letterato-ideologo”, in polemica contro i “letterati-letterati” e dunque contro i solariani e gli ermetici.
In realtà i fascisti di sinistra puntavano a scavalcare la mediazione della burocrazia fascista e ad avvalersi della diretta protezione di Mussolini. La loro illusione durò sino alla guerra di Spagna, quando invano sperarono che il fascismo intervenisse contro Franco, a fianco dei repubblicani. Delusi, alcuni di loro (Vittorini, Bilenchi, Pratolini) si avvicinarono fra il 1939 e il 1940 al partito comunista clandestino, e parteciparono poi alla Resistenza.
In un primo tempo, però, fra il 1936 e il 1939, i fascisti di sinistra, sconfitti e amareggiati, ripiegarono sulla letteratura, avvicinandosi ai “letterati-letterati”. La rivista che dette voce a tale confluenza fu la fiorentina “Campo di Marte”, diretta nel 1938-39 da Vasco Pratolini e Alfonso Gatto. Qui si incontrarono ermetici e populisti, unificati dalla tensione verso un’essenza universale dell’Uomo che solo l‘arte sarebbe in grado di cogliere. Valore assoluto dell’arte e credo umanitario potevano così saldarsi.»
Il fascismo di sinistra non fu un movimento puramente letterario, anche se dovette ripiegare prevalentemente sul terreno culturale dopo il 1936; come già abbiamo accennato, lo si sarebbe visto riemergere con prepotenza nell’ultima stagione del regime, quella repubblicana, allorché, in pratica, riuscì a divenire il credo “ufficiale” di Salò.
La storiografia liberaldemocratica ha sempre presentato la politica socializzatrice del 1943-45 e, in particolare, i diciotto punti del Manifesto di Verona del 14 novembre 1943, come un mero espediente per tentare d’ingraziarsi le masse lavoratrici; sarebbe invece più logico e più semplice vedervi la naturale conclusione del ciclo storico del fascismo, la chiusura del cerchio aperto con l’adunata di Piazza San Sepolcro del 23 marzo 1919.
Quel che appare evidente, infatti, è che nel periodo della Repubblica Sociale Italiana si fecero avanti non i furbi e i profittatori del regime, ma gli idealisti che avevano tutto da perdere, a cominciare dalla loro sicurezza personale, tranne le loro idee; non i moderati e i conservatori, come Dino Grandi e gli altri che avevano causato il crollo del 25 luglio e che sempre avevano parteggiato per la Gran Bretagna, ma i socializzatori, quelli che erano stati accusati di “bolscevismo” durante il ventennio e che avevano considerato un gravissimo errore la guerra voluta da Hitler contro l’Unione Sovietica, mentre avevano individuato il vero nemico da abbattere nelle “plutocrazie”, ossia nel capitalismo anglo-americano.
Non per niente Berto Ricci, scrittore, poeta, giornalista, aveva lasciato la sua cattedra di matematica e la sua famiglia per andare volontario in guerra nell’Africa Settentrionale e combattere contro gli Inglesi, nella speranza di vedere «un mondo un po’ meno ingiusto»; e lì, nel deserto della Libia, aveva concluso con la morte, sotto un mitragliamento britannico, una vita intellettualmente onesta e dignitosa, di specchiata coerenza.
Berto Ricci, da giovane, aveva simpatizzato per l’anarchia, prima di aderire con convinzione al fascismo: non quello dei gerarchi, ma quello dei lavoratori; nulla di straordinario in ciò: era stato lo stesso percorso di uomini come il filosofo Giovanni Papini, come il pittore Lorenzo Viani o come lo scrittore Marcello Gallian; ed era stato, non si deve dimenticarlo, un percorso abbastanza simile a quello dello stesso Mussolini. Non si vuol dire, con ciò, che la maggior pare degli anarchici sia confluita nel fascismo; ma che non si trattò di casi isolati e scandalosi.
Anche il sindacalista Cianetti era uno che deprecava come le esigenze della politica estera avessero reso necessario un intervento italiano a sostegno della Spagna clericale e conservatrice di Francisco Franco, invece che al fianco del governo repubblicano; ma il cuore dei fascisti di sinistra aveva continuato a battere per la causa repubblicana, non per quella franchista.
Tutto l’arcano, ammesso che sia tale, diverrebbe un po’ meno misterioso se solo si ammette che il fascismo, pur nella sua complessità e, per certi aspetti, disorganicità, non fu mai, e tanto meno all’inizio, un fenomeno politico di “destra”, ma di “sinistra”, se con ciò si intende rivoluzionario, antiborghese e anticlericale; una sinistra diversa e alternativa a quella “ufficiale”, rappresentata dal socialismo e, poco dopo, dal comunismo di ispirazione bolscevica, ma autenticamente popolare e autenticamente italiana, che traeva la sua linfa vitale non da suggestioni importate dall’estero (come il bakunismo, il marxismo, il leninismo) ma da esigenze e problematiche antiche della nostra società, vissute e sentite con dolorosa urgenza, in una prospettiva nazionale.
È vero che “Il Selvaggio” e il movimento strapaesano di Mino Maccari dovettero rinunciare alla loro dimensione “politica” negli anni della normalizzazione del regime, cioè a partire dal 1925, accontentandosi di ripiegare nell’ambito puramente culturale e, con ciò, di chiudersi nel ghetto della letteratura, in contrasto con le proprie tendenze e aspirazioni più profonde; ma è altrettanto significativo il fatto che essi tennero viva la fiammella rivoluzionaria negli anni del grigiore borghese e svolsero un ruolo non secondario nel consentire che la fiamma socializzatrice si riaccendesse nella stagione finale della Repubblica di Salò.
Potremmo spingere oltre questa linea interpretativa e pensare che l’anima sociale del fascismo sopravvisse alla catastrofe del 1943-45, della guerra civile e della sconfitta militare (sconfitta che, a differenza di quanto sostiene la Vulgata liberaldemocratica, non fu solo del fascismo, ma fu nazionale e riguardò anche la parte che allora si autoproclamò vittoriosa, quella antifascista), per passare le consegne all’Italia democratica del dopoguerra.
Il Partito comunista avrebbe mai raggiunta una tale presa sulle masse operaie, se non vi fosse stata la politica sociale di Salò? Il referendum istituzionale sarebbe mai stato vinto dai sostenitori della Repubblica contro quelli della Monarchia, se non vi fosse stata l’esperienza repubblicana di Salò? Vi sarebbe mai stata la stagione culturale del neorealismo, senza i precedenti di Strapaese, senza registi come Alessandro Blasetti, senza scrittori provenienti dal fascismo di sinistra, come Bilenchi, Pratolini e Vittorini?
Anche se una simile tesi farà certamente infuriare i sostenitori della assoluta “purezza” ideologica dell’Italia democratica e antifascista, una analisi storiografica spassionata non può che evidenziare gli elementi di continuità, logica e cronologica, fra la dimensione sociale del fascismo e molti aspetti, molte manifestazioni e molti esiti di quella politica, di quella società e di quella cultura che, ormai per abitudine, si definiscono democratiche e antifasciste, come se si contrapponessero, con assoluta radicalità, all’insieme dell’esperienza fascista.
Lo stesso pluralismo politico non nasce, nel 1945, dal nulla, cioè dalle sole forze dell’antifascismo militante, ma era già in embrione nella concezione del fascismo di sinistra, per poi fare ritorno nel fascismo repubblicano: incoraggiato, pur con limiti ben precisi, dovuti in gran parte alla drammatica situazione politico-militare del 1943-45, da Mussolini in persona.
Questa è un’altra cosa che gli storici della Vulgata dominante non amano riconoscere: che Mussolini, nella sua ultima stagione politica, lavorò per consegnare all’Italia del dopoguerra, ch’egli - da uomo intelligente, qual era - sapeva benissimo sarebbe stata senza di lui, un embrione di pluralismo e di libertà politiche, oltre che una parziale socializzazione dell’economia; e che, in questo senso, l’esperienza della Repubblica Sociale non fu affatto inutile e dettata solo da meschine ragioni di vendetta e da ambizioni personali, ma nacque dalla necessità storica di costituire un ponte fra l’Italia dell’8 settembre 1943, umiliata, divisa, dominata dai maneggi delle classi conservatrici, e quella futura, che avrebbe dovuto ricostruire la coesione interna e riprendere il suo posto in seno alla comunità internazionale.
Anche in questo senso, si può serenamente affermare che i fascisti di sinistra non furono un manipolo di visionari o di illusi, ma che seppero vedere più lontano di tanti altri, sia fascisti che antifascisti; e che seppero interpretare dignitosamente, con coerenza e, spesso, con autentico spirito di sacrificio, delle esigenze profonde della società italiana, che non erano il piacere del manganello e dell’olio di ricino, ma la volontà di realizzare una profonda trasformazione della società italiana, in senso autenticamente popolare ed in tutte le sue manifestazioni: dall’economia, alla politica, alla cultura.
Fonte: Arianna Editrice: www.ariannaeditrice.it
C’è stato un tempo in cui intellettuali e militanti del fascismo pensavano che il regime sarebbe intervenuto nella guerra civile spagnola non dalla parte dei franchisti, ma al fianco dei repubblicani; cosa che essi desideravano e speravano ardentemente.
Detta così, nel contesto della Vulgata dominante liberaldemocratica, sembra quasi una esercitazione di ucronia, la “scienza” della storia possibile, ma non effettivamente accaduta, teorizzata dal filosofo francese Charles Renouvier e sviluppata da diversi scrittori e studiosi, a cominciare da Tito Livio, il quale si domandava che cosa sarebbe accaduto se Alessandro Magno avesse puntato ad espandere il regno macedone non verso Oriente, cioè verso l’Impero Persiano e l’India, ma verso Occidente, ossia in direzione di Roma.
Infatti, secondo la Vulgata liberaldemocratica, il fascismo è sempre stato uguale a se stesso: un regime becero e monolitico, sistematicamente arroccato a sostegno degli interessi delle classi possidenti e sostanzialmente nemico di quelle lavoratrici; un regime che non poteva non schierarsi dalla parte di Franco, così come - qualche anno dopo - non avrebbe potuto non fare la sua scelta di campo al fianco di Hitler.
Ora, a parte il fatto che resta tutto da spiegare, in una simile prospettiva, come questo regime anti-popolare abbia potuto reggersi per vent’anni e godere di un vasto sostegno popolare, che venne meno solamente sotto il peso di una sconfitta militare schiacciante, è chiaro che l’errore fondamentale consiste nel considerare il fascismo come un tutto omogeneo e nel non voler distinguere tra le varie componenti del fascismo come movimento e quelle del fascismo come governo prima, come regime poi.
La maggior parte dei testi divulgativi, a cominciare da quelli di uso scolastico, sono ancora basati su una tale impostazione; quelli specialistici si degnano di riconoscere una certa eterogeneità ideologica e una certa complessità sociale del fenomeno “fascismo”, anche se ben raramente sfuggono alla tentazione di appiattirsi sull’ideologia dei vincitori e di fare di tutta l’erba un fascio, condannando come un tragico errore, come una crociana malattia della società italiana, quel ventennio della nostra storia, senza darsi troppa pena nel distinguere, nel puntualizzare e nel precisare categorie politiche e sociologiche assai generiche.
Il fascismo di sinistra, in particolare, non è mai stato riconosciuto come una componente organica e coerente, con una sua dignità intellettuale e politica, distinta dal fascismo-regime e addirittura alternativa all’orientamento borghese-conservatore della dittatura; né si è evidenziata a sufficienza la continuità esistente fra esso e le origini sociali, rivoluzionarie e antiborghesi del fascismo delle origini: quello di Piazza San Sepolcro.
Inoltre, si è parlato del fascismo di sinistra (in genere mettendo l’espressione tra virgolette, come si trattasse di una cosa da non prendere troppo sul serio) più sul versante letterario, magari per spiegare la successiva, “miracolosa” conversione di scrittori passati alla sinistra socialcomunista e divenuti poi famosi, come Elio Vittorini e Vasco Pratolini, che non su quello propriamente politico e sindacale; perché, se si fosse approfondito quest’ultimo aspetto, si sarebbe probabilmente dovuto ammettere che aveva solide radici popolari, non solo nelle campagne, ma anche nelle fabbriche, il che avrebbe fatto cadere la manichea e semplicistica equivalenza tra fascismo e conservatorismo da un lato, e fra socialcomunismo e progressismo, dall’altro.
Sarebbe imbarazzante, per la Vulgata storica oggi dominante, ammettere che non tutti gli squadristi consideravano i contadini come i loro nemici naturali, ma che alcuni vedevano invece questi ultimi proprio negli agrari (cfr. Il nostro precedente articolo: «Tullio Cianetti, il fascista che bastonare gli agrari», apparso sul sito di Arianna Editrice il 12/10/2009); o che la caduta di Mussolini, il 25 luglio del 1943, forse fu pianificata dall’alta borghesia precisamente per impedirgli di riprendere il programma sociale delle origini (cfr. il nostro articolo: «Fu il progetto di socializzare l’economia italiana a provocare la crisi del 25 luglio 1943?», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 16/11/2008).
Su questi temi sono usciti alcuni eccellenti studi, come i saggi contenuti nel volume di Enrico Landolfi «Rosso imperiale», i quali, però, non sono riusciti a scalfire sostanzialmente l’impianto tradizionale della storiografia italiana sul fascismo, ma che hanno semmai coinvolto una piccola minoranza di storici, lasciando fuori la grande massa del pubblico.
Eppure, il fascismo di sinistra, negli anni Trenta e fino ala guerra di Spagna, fu una componente importante del fascismo, sia sul piano culturale, sia sul piano sociale e sindacale; filosofi come Ugo Spirito e sindacalisti come Tullio Cianetti puntavano a una ripresa del programma corporativo in chiave integrale; uomini di cultura come Berto Ricci, dalle colonne di una prestigiosa rivista come «L’universale», tenevano viva l’anima originaria del regime, sovversiva e antiborghese; figure prestigiose come Ardengo Soffici e Giovanni Papini gravitavano in quella direzione; giornalisti di prim’ordine, come Concetto Pettinato, guardavano nella stessa direzione e auspicavano non già una alleanza dell’Italia fascista con la Germania di Hitler, ma, semmai, con l’Unione Sovietica, o, quanto meno, una politica di collaborazione con essa, parallela al bolscevismo.
E non è che questi ambienti fossero del tutto isolati o che queste voci chiamassero nel deserto; sia Bottai, sia lo stesso Mussolini tenevano in un certo conto il fascismo di sinistra, dialogavano con esso e, per certi aspetti, lo proteggevano; tanto è vero che, dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, questi temi e queste aspirazioni sarebbero tornati prepotentemente alla ribalta e, addirittura, sarebbero entrati a far parte del programma del Manifesto di Verona - anche perché, questo è vero, la separazione dalla monarchia e dagli ambienti conservatori ad essa vicini aveva reso le cose più chiare e, in un certo senso, aveva reso inevitabile l’accentuazione delle tendenze sociali e antiborghesi del governo di Salò.
Scrivono Romano Luperini e altri (in: «La scrittura e l’interpretazione», Palermo, Palumbo & C. Editore, 2011, vol. 6, pp. 51-52):
«Il fascismo va al potere utilizzando il sovversivismo piccolo-borghese; ma, diventando regime, tende poi a soffocarlo. Si spezza così il legame fra avanguardia e sovversivismo, fra impegno sperimentale e movimento di lotta. Se si aggiunge che nel generale ritorno al’ordine le avanguardie sono mal viste o combattute, si può capire il motivo per cui esse, dopo il 1925, continuino a sopravvivere solo in forme moderate, trasformandosi in movimenti di fronda interni al fascismo.
È così per “stracittà” e per “Strapaese”, che si inseriscono nel dibattito fascista sull’ordine di priorità e di importanza da assegnare a campagna e industria, a politica rurale e modernizzazione “Stracittà” recupera il modernismo cittadino dei futuristi, “Strapaese” prosegue il sovversivismo antiborghese e campagnolo della tradizione lacerbiana (e infatti è appoggiato da Paini e Soffici).
Il primo dei due movimenti a darsi una rivista “Strapaese” attraverso “Il Selvaggio”, fondato dal pittore Mino Maccari a Colle Val d’Elsa (Siena) nel 1924,. La rivista fu poi spostata a Firenze e per un certo periodo anche a Torino ed ebbe lunga vita (sino al 1943). Dopo una prima fase più spiccatamente politica, divenne prevalentemente artistica e letteraria, conservando però un acceso fervore antiborghese. Su di essa Maccari attaccava, con la penna e con le immagini, le tendenze conservatrici del regime e la propensione del fascismo a diventare istituzione. […]
La tendenza strapaesana continua negli anni Trenta passando anche ad altre riviste, come “L’Italiano” di Longanesi, e soprattutto influenzando i giovani “fascisti di sinistra” che ne riprendono l’aspetto ribellistico e utopico. Si tratta di un gruppo di giovani, attivi negli anni Trenta a Firenze: Berto Ricci, Dino Garrone, e gli scrittori Elio Vittorini, Romano Bilenchi, Vasco parato lini. Essi collaboravano a “L’universale” (1931-36), rivista diretta da Berto Ricci, e a “Il Bargello”, organo settimanale della federazione fascista di Firenze.
I giovani fascisti di sinistra sostenevano la necessità che il fascismo approfondisse le proprie radici popolari e si avvicinasse al socialismo e all’URSS; proponevano di espropriare i possidenti e di dare la terra ai contadini e allo Stato; erano portatori di un programma utopico volto ad abolire le differenze fra lavoro manuale e intellettuale. Il popolo è per loro sinonimo di cultura, di civiltà, di umanità. In base a tale credo umanitario e a tale acceso populismo, , si battevano contro i caratteri elitari della riforma Gentile e della cultura dell’idealismo: affermavano l’esigenza per l’intellettuale d’impegnarsi politicamente rivendicando il diritto al dissenso all’interno del fascismo. “L’universale” e la terza pagina del “Bargello” proponevano insomma la figura del “letterato-ideologo”, in polemica contro i “letterati-letterati” e dunque contro i solariani e gli ermetici.
In realtà i fascisti di sinistra puntavano a scavalcare la mediazione della burocrazia fascista e ad avvalersi della diretta protezione di Mussolini. La loro illusione durò sino alla guerra di Spagna, quando invano sperarono che il fascismo intervenisse contro Franco, a fianco dei repubblicani. Delusi, alcuni di loro (Vittorini, Bilenchi, Pratolini) si avvicinarono fra il 1939 e il 1940 al partito comunista clandestino, e parteciparono poi alla Resistenza.
In un primo tempo, però, fra il 1936 e il 1939, i fascisti di sinistra, sconfitti e amareggiati, ripiegarono sulla letteratura, avvicinandosi ai “letterati-letterati”. La rivista che dette voce a tale confluenza fu la fiorentina “Campo di Marte”, diretta nel 1938-39 da Vasco Pratolini e Alfonso Gatto. Qui si incontrarono ermetici e populisti, unificati dalla tensione verso un’essenza universale dell’Uomo che solo l‘arte sarebbe in grado di cogliere. Valore assoluto dell’arte e credo umanitario potevano così saldarsi.»
Il fascismo di sinistra non fu un movimento puramente letterario, anche se dovette ripiegare prevalentemente sul terreno culturale dopo il 1936; come già abbiamo accennato, lo si sarebbe visto riemergere con prepotenza nell’ultima stagione del regime, quella repubblicana, allorché, in pratica, riuscì a divenire il credo “ufficiale” di Salò.
La storiografia liberaldemocratica ha sempre presentato la politica socializzatrice del 1943-45 e, in particolare, i diciotto punti del Manifesto di Verona del 14 novembre 1943, come un mero espediente per tentare d’ingraziarsi le masse lavoratrici; sarebbe invece più logico e più semplice vedervi la naturale conclusione del ciclo storico del fascismo, la chiusura del cerchio aperto con l’adunata di Piazza San Sepolcro del 23 marzo 1919.
Quel che appare evidente, infatti, è che nel periodo della Repubblica Sociale Italiana si fecero avanti non i furbi e i profittatori del regime, ma gli idealisti che avevano tutto da perdere, a cominciare dalla loro sicurezza personale, tranne le loro idee; non i moderati e i conservatori, come Dino Grandi e gli altri che avevano causato il crollo del 25 luglio e che sempre avevano parteggiato per la Gran Bretagna, ma i socializzatori, quelli che erano stati accusati di “bolscevismo” durante il ventennio e che avevano considerato un gravissimo errore la guerra voluta da Hitler contro l’Unione Sovietica, mentre avevano individuato il vero nemico da abbattere nelle “plutocrazie”, ossia nel capitalismo anglo-americano.
Non per niente Berto Ricci, scrittore, poeta, giornalista, aveva lasciato la sua cattedra di matematica e la sua famiglia per andare volontario in guerra nell’Africa Settentrionale e combattere contro gli Inglesi, nella speranza di vedere «un mondo un po’ meno ingiusto»; e lì, nel deserto della Libia, aveva concluso con la morte, sotto un mitragliamento britannico, una vita intellettualmente onesta e dignitosa, di specchiata coerenza.
Berto Ricci, da giovane, aveva simpatizzato per l’anarchia, prima di aderire con convinzione al fascismo: non quello dei gerarchi, ma quello dei lavoratori; nulla di straordinario in ciò: era stato lo stesso percorso di uomini come il filosofo Giovanni Papini, come il pittore Lorenzo Viani o come lo scrittore Marcello Gallian; ed era stato, non si deve dimenticarlo, un percorso abbastanza simile a quello dello stesso Mussolini. Non si vuol dire, con ciò, che la maggior pare degli anarchici sia confluita nel fascismo; ma che non si trattò di casi isolati e scandalosi.
Anche il sindacalista Cianetti era uno che deprecava come le esigenze della politica estera avessero reso necessario un intervento italiano a sostegno della Spagna clericale e conservatrice di Francisco Franco, invece che al fianco del governo repubblicano; ma il cuore dei fascisti di sinistra aveva continuato a battere per la causa repubblicana, non per quella franchista.
Tutto l’arcano, ammesso che sia tale, diverrebbe un po’ meno misterioso se solo si ammette che il fascismo, pur nella sua complessità e, per certi aspetti, disorganicità, non fu mai, e tanto meno all’inizio, un fenomeno politico di “destra”, ma di “sinistra”, se con ciò si intende rivoluzionario, antiborghese e anticlericale; una sinistra diversa e alternativa a quella “ufficiale”, rappresentata dal socialismo e, poco dopo, dal comunismo di ispirazione bolscevica, ma autenticamente popolare e autenticamente italiana, che traeva la sua linfa vitale non da suggestioni importate dall’estero (come il bakunismo, il marxismo, il leninismo) ma da esigenze e problematiche antiche della nostra società, vissute e sentite con dolorosa urgenza, in una prospettiva nazionale.
È vero che “Il Selvaggio” e il movimento strapaesano di Mino Maccari dovettero rinunciare alla loro dimensione “politica” negli anni della normalizzazione del regime, cioè a partire dal 1925, accontentandosi di ripiegare nell’ambito puramente culturale e, con ciò, di chiudersi nel ghetto della letteratura, in contrasto con le proprie tendenze e aspirazioni più profonde; ma è altrettanto significativo il fatto che essi tennero viva la fiammella rivoluzionaria negli anni del grigiore borghese e svolsero un ruolo non secondario nel consentire che la fiamma socializzatrice si riaccendesse nella stagione finale della Repubblica di Salò.
Potremmo spingere oltre questa linea interpretativa e pensare che l’anima sociale del fascismo sopravvisse alla catastrofe del 1943-45, della guerra civile e della sconfitta militare (sconfitta che, a differenza di quanto sostiene la Vulgata liberaldemocratica, non fu solo del fascismo, ma fu nazionale e riguardò anche la parte che allora si autoproclamò vittoriosa, quella antifascista), per passare le consegne all’Italia democratica del dopoguerra.
Il Partito comunista avrebbe mai raggiunta una tale presa sulle masse operaie, se non vi fosse stata la politica sociale di Salò? Il referendum istituzionale sarebbe mai stato vinto dai sostenitori della Repubblica contro quelli della Monarchia, se non vi fosse stata l’esperienza repubblicana di Salò? Vi sarebbe mai stata la stagione culturale del neorealismo, senza i precedenti di Strapaese, senza registi come Alessandro Blasetti, senza scrittori provenienti dal fascismo di sinistra, come Bilenchi, Pratolini e Vittorini?
Anche se una simile tesi farà certamente infuriare i sostenitori della assoluta “purezza” ideologica dell’Italia democratica e antifascista, una analisi storiografica spassionata non può che evidenziare gli elementi di continuità, logica e cronologica, fra la dimensione sociale del fascismo e molti aspetti, molte manifestazioni e molti esiti di quella politica, di quella società e di quella cultura che, ormai per abitudine, si definiscono democratiche e antifasciste, come se si contrapponessero, con assoluta radicalità, all’insieme dell’esperienza fascista.
Lo stesso pluralismo politico non nasce, nel 1945, dal nulla, cioè dalle sole forze dell’antifascismo militante, ma era già in embrione nella concezione del fascismo di sinistra, per poi fare ritorno nel fascismo repubblicano: incoraggiato, pur con limiti ben precisi, dovuti in gran parte alla drammatica situazione politico-militare del 1943-45, da Mussolini in persona.
Questa è un’altra cosa che gli storici della Vulgata dominante non amano riconoscere: che Mussolini, nella sua ultima stagione politica, lavorò per consegnare all’Italia del dopoguerra, ch’egli - da uomo intelligente, qual era - sapeva benissimo sarebbe stata senza di lui, un embrione di pluralismo e di libertà politiche, oltre che una parziale socializzazione dell’economia; e che, in questo senso, l’esperienza della Repubblica Sociale non fu affatto inutile e dettata solo da meschine ragioni di vendetta e da ambizioni personali, ma nacque dalla necessità storica di costituire un ponte fra l’Italia dell’8 settembre 1943, umiliata, divisa, dominata dai maneggi delle classi conservatrici, e quella futura, che avrebbe dovuto ricostruire la coesione interna e riprendere il suo posto in seno alla comunità internazionale.
Anche in questo senso, si può serenamente affermare che i fascisti di sinistra non furono un manipolo di visionari o di illusi, ma che seppero vedere più lontano di tanti altri, sia fascisti che antifascisti; e che seppero interpretare dignitosamente, con coerenza e, spesso, con autentico spirito di sacrificio, delle esigenze profonde della società italiana, che non erano il piacere del manganello e dell’olio di ricino, ma la volontà di realizzare una profonda trasformazione della società italiana, in senso autenticamente popolare ed in tutte le sue manifestazioni: dall’economia, alla politica, alla cultura.
venerdì 13 gennaio 2012
Pensiero nazionale: Stanis Ruinas, il “fascista rosso”
“Non vi è socialismo senza nazionalizzazione e socializzazione delle industrie, espropriazione della proprietà terriera con la creazione di aziende agricole a condotta cooperativistica, nazionalizzazione delle banche e degli istituti di credito, limitazione del diritto di proprietà ai beni di uso e consumo, sottrazione della stampa al controllo del capitale privato, cessazione totale dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo”; estratto da un articolo di Spartaco Cilento del 1948, questa citazione può ben rappresentare la linea di pensiero perseguita dalla rivista quindicinale conosciuta con il nome di “Pensiero Nazionale”.
Partorito dalla fervida mente di Stanis Ruinas, “Il Pensiero Nazionale” usciva per la prima volta il 15 maggio 1947 con una veste grafica che ricordava molto quella di “Critica Fascista”, rivista diretta da Giuseppe Bottai, con l’obiettivo di coagulare intorno a sé tutti gli “ex fascisti di sinistra”, i quali, come Ruinas, si identificavano nella concezione rivoluzionaria del fascismo, riconoscendo in Benito Mussolini un rivoluzionario autentico la cui politica fu per lungo tempo condizionata dagli interessi dei conservatori, dei clericali, dei moderati, di tutti coloro, insomma, che, dopo esser saliti sul carro dei vincitori nel 1922 per garantire l’intangibilità delle proprie ricchezze, non ebbero troppe remore nel liquidare il Capo del fascismo quando gli eventi bellici iniziarono a far vacillare le loro posizioni.
Contro gli esponenti di simili interessi, Stanis Ruinas, al secolo Giovanni Antonio de Rosas, aveva già ingaggiato, nel corso del Ventennio, una dura e coraggiosa battaglia, come si può facilmente evincere dai suoi articoli apparsi su testate rinomate come “L’Impero” o “Il Popolo d’Italia”. Per le sue posizioni fortemente sociali, infatti, egli giunse più volte ai ferri corti col P.N.F finché, dopo essere stato sospeso più volte e sottoposto a regime di sorveglianza speciale, non vi si riconciliò, definitivamente, nel 1939, grazie al suo libro “Viaggio per le città di Mussolini”; opera che gli garantì, tra l’altro, il Premio Letterario Sabaudia.
Combattente in Spagna ed in Etiopia, fu a Berlino, nel 1941, quale direttore del periodico “Lager” destinato ai lavoratori italiani in Germania. Dopo il 25 luglio, coerentemente alla sua connotazione di fascista di sinistra, mazziniano e repubblicano, aderì alla Repubblica Sociale Italiana per continuare la lotta contro le “demoplutocrazie” anglosassoni e realizzare la tanto auspicata rivoluzione sociale.
Sostenitore della sinistra saloina, che con Giorgio Pini, Carlo Borsani, Concetto Pettinato ed Eugenio Montesi cercò di realizzare la socializzazione e di trovare un accordo con le forze antifasciste “sane e popolari” al fine di evitare lo scoppio della guerra civile, Ruinas fu, come si evince dalla sua opera “Pioggia sulla Repubblica”, (1946) strenuo oppositore del c.d. “Granducato di Toscana”, composto da Farinacci, Pavolini e Vanni Tedorani, oltre ad una selva di gerarchi, rei, secondo il giornalista sardo, di tenere sotto scacco il Duce ed essere capaci, nella loro inettitudine, di combattere solo gli “eretici del fascismo”.
Al termine della tenzone bellica, dopo un periodo trascorso in prigionia a Venezia, Stanis Ruinas si recò a Roma dove, tra molte difficoltà, diede vita al “Pensiero Nazionale”.
La redazione dell’organo dei “fascisti rossi”, infatti, venne ubicata in una stanza al quinto piano di uno stabile in via Salandra che già ospitava l’editore Corso, vecchio amico di Ruinas e editore del suo libro “Pioggia sulla Repubblica”.
I collaboratori che nel corso degli anni parteciparono a questa nuova testata provenivano, tranne qualche eccezione, dai ranghi della R.S.I. I nomi sono tra i più rilevanti di quel periodo: si registrano, infatti, esponenti della gerarchia militare di Salò come il generale Emilio Canevari, vicino a Rodolfo Graziani, e il contrammiraglio nonché sottosegretario della Marina della Repubblica Sociale Ferruccio Ferrini; parteciparono, inoltre, il sindacalista fascista Silvio Galli, il giornalista Aniceto Del Massa, vicino a Berto Ricci e all’Universale, il regista di avanguardia Anton Giulio Bragaglia e gli scrittori Marcello Gallian e Mario Massa.
A questi s’associò, inoltre, un folto gruppo di giovani provenienti dalla X° Mas come Alvise Gigante, Spartaco Cilento e, soprattutto, Lando Dell’Amico, il quale, oltre ad essere molto colto, si dimostrò anche un abile politico. Egli, infatti, svolse un rilevante ruolo di raccordo tra la massa dei giovani reduci provenienti da Salò, il Pensiero Nazionale ed il P.C.I.; nei suoi articoli, dal contenuto fortemente anticapitalista e di sinistra, era facile scorgere i segni della sua ideologia in cui ben si conciliavano le idee di Gramsci con l’attualismo gentiliano, così come il mito della nazione e la lotta di classe.
Riprendendo la strada già tracciata nel 1936 dai comunisti, col famoso appello ai fratelli in camicia nera che invitava i fascisti di sinistra a riprendere il programma del 1919, avallato dai comunisti come “…un programma di pace, di libertà di difesa degli interessi dei lavoratori…” per dar vita ad una strenua battaglia congiunta in chiave anticapitalista, Ruinas e il suo giornale intrattennero rapporti col Partito Comunista Italiano che, a partire dal 1947, andranno a stringersi sempre più per poi spezzarsi definitivamente nel 1953.
Il primo a tendere la mano ai giovani reduci della Repubblica Sociale Italiana fu Gian Carlo Pajetta, con due celebri editoriali apparsi sull’Unità a partire dal settembre del 1945 dai titoli eloquenti: “Riconquistare dei figli all’Italia” e “Compagni di lotta”; tali articoli, invitando gli “erresseisti” (così Ruinas chiamava i reduci non gradendo molto il termine “repubblichini”) vittime dell’ “antico inganno”, a confluire nel P.C.I. per proseguire la battaglia contro le forze reazionarie e clericali rappresentate dalla Democrazia Cristiana. Un atto che, senza ombra di dubbio, non era dettato esclusivamente da filantropia ma anche da specifici interessi politici.
In seguito alla nascita del Movimento Sociale Italiano, Stanis Ruinas assunse il ruolo di interlocutore principale tra i dirigenti del Partito Comunista, che miravano a conquistare i giovani di Salò, e quest’ultimi; un rapporto molto stretto e per questo inviso alla base partigiana del Partito e a buona parte della sfera dirigenziale. Di questo rapporto non era felice nemmeno la stampa filo-democristiana; molti giornali, tra cui “Il Momento”, infatti, facendo leva sul mai celato filo-comunismo di Ruinas, affermarono che dietro i propositi di una presunta pacificazione si celava esclusivamente la volontà di Botteghe Oscure di convogliare gli ex fascisti verso il comunismo.
Il 1948 fu per diversi aspetti un anno particolare per Ruinas ed il Pensiero Nazionale. Innanzitutto, nonostante le accuse che provenivano da destra su presunti finanziamenti del P.C.I. al quindicinale diretto dal giornalista sardo, la testata rischiò, nel solo periodo di gennaio-marzo, di fallire per ben cinque volte; è interessante notare, inoltre, le posizioni assunte da Ruinas e dai gruppi di Pensiero Nazionale in merito alle elezioni dello stesso anno. A chi temeva, infatti, che Ruinas e i suoi ventimila simpatizzanti si esprimessero nettamente a favore del Fronte democratico per la Pace, Ruinas spiegò, con l’editoriale “Oltre la palude o della nostra posizione nelle elezioni del 18 aprile”, i motivi del proprio astensionismo.
I gruppi formatisi intorno a Pensiero Nazionale, oltre a rifiutare in maniera netta l’anticomunismo in funzione americana, rifiutavano allo stesso tempo qualsiasi forma di comunismo asservito alla Russia; la posizione sostenuta dal giornalista sardo, infatti, s’incentrava su una chiara volontà che vedeva l’Italia ed il resto d’Europa libere da ogni ingerenza straniera e ribadiva che ogni singolo paese, libero e sovrano nei propri confini naturali, aveva il diritto di scegliere liberamente quale forma di governo darsi.
Pur dichiarandosi socialisti, insomma, Ruinas e i suoi adepti decisero di non votare per il Fronte democratico, mero cartello elettorale figlio dell’antitesi USA-URSS e dell’antifascismo, perché ciò avrebbe significato non solo negare se stessi ma avrebbe anche incrinato la fede nell’insurrezione nutrita dall’ “ex fascista di sinistra”, concedendo al parlamento, istituzione da sempre disprezzata, quei tratti di forza rivoluzionaria e dinamica che egli non era disposto a dargli.
Oltre la bagarre elettorale, il 1948 è anche l’anno dell’attentato alla vita di Togliatti. Questo episodio rappresentò un punto importante per la vita di Pensiero Nazionale poiché segnò sia l’ultima fase di avvicinamento con il P.C.I, prima dell’allontanamento definitivo del 1953, che il punto di svolta che porterà, di lì ad un anno, i reduci della Decima Mas, che collaboravano al giornale, ad abbandonarlo per ingrossare le fila del Partito Comunista.
Mentre il legame col P.C.I. andava consolidandosi, l’atteggiamento critico di Pensiero Nazionale nei confronti del Movimento Sociale non accennava a diminuire. Il motivo principale che spingeva chi tanto orgogliosamente continuava a definirsi “ex fascista di sinistra” e allo stesso tempo ferocemente “antineofascista” era rappresentato, senza dubbio, dalla scarsa considerazione che si nutriva nei confronti di tale progetto e della sua classe dirigente: il M.S.I., infatti, era considerato da Ruinas come un “serbatoio” creato a regola d’arte da chi teneva le redini del sistema al solo scopo di imbrigliare, con la connivenza degli ex gerarchi, la volontà rivoluzionaria di quelle forze giovanili genuinamente socialiste e rivoluzionarie espresse dall’esperienza della R.S.I.
Secondo Ruinas, infatti, il fascismo aveva riscoperto nell’esperienza repubblicana le sue radici socialiste e sindacaliste rivoluzionarie liberandosi definitivamente degli orpelli del regime. Radici che ora i traditori del Manifesto di Verona volevano recidere costringendo all’immobilità, abbagliati dal perenne ricordo e dalla possibilità del ritorno ai “tempi belli”, tutti gli esponenti di quel periodo, parcheggiandoli in un movimento anticomunista, antisocialista filo- americano, in una parola “reazionario al servizio di forze reazionarie”.
Questa critica raggiunse il suo apice nel 1952; gli attacchi, però, saranno sempre portati verso la dirigenza e mai contro la base, che trovava negli elementi popolari la fetta più rappresentativa.
Il 12 aprile del 1950, Stanis Ruinas fu arrestato con l’accusa di istigazione alla rivolta armata contro i poteri costituiti. Tale procedimento fu, molto probabilmente, imbastito dal governo. L’accusa, infatti, faceva particolare riferimento a due suoi articoli, dal titolo “Ai comunisti” ed “Insorgere contro il sanfedismo”, in cui si criticavano i comunisti per non essersi impossessati del potere quando avevano potuto e si attacca ferocemente la figura dell’allora Presidente del Consiglio Alcide de Gasperi. Dell’arresto di Ruinas si occuparono diversi giornali esteri, come l’Herald Tribune e Vers l’Avenir, oltre ai quotidiani nazionali di sinistra, che videro in ciò un atto del governo per mettere a tacere un avversario politico proveniente sì dall’esperienza fascista ma contrario ad una sua riesumazione. Prosciolto per insufficienza di prove, Ruinas riprese immediatamente la lotta contro il “Partito dei bagarini di Dio” e il suo capo.
Ma il 1950 fu anche l’anno del tentativo del Fronte Laico Nazionale, una nuova creatura politica a cui Ruinas si dedicò, che, ispirata ai valori risorgimentali, doveva essere aperta a tutte le forze laiche del Paese per continuare la guerra contro il clericalismo dilagante; l’esperimento, però, spirò dopo poco tempo.
Dal dicembre del 1951 e fino alla metà del 1952, Pensiero Nazionale e il P.C.I. diedero vita ad una nuova feroce campagna contro il M.S.I., scaturita dalla concessione della presidenza onoraria del partito al “principe nero” Junio Valerio Borghese, esponente di quella aristocrazia che aveva, a suo tempo, già minato le basi del Fascismo. Tale nomina, infatti, fu interpretata come il tentativo di eliminare definitivamente nel movimento neofascista le istanze di sinistra nazionale presenti soprattutto nel nord del Paese e rappresentate da esponenti del calibro di Giorgio Pini e Concetto Pettinato, al fine di traghettare il Movimento Sociale verso quella posizione di guardia bianca schierata a difesa degli interessi delle forze reazionarie del Paese.
La requisitoria contro Borghese fu durissima e trovò nell’azione dell’ex sottosegretario della Marina R.S.I Ferruccio Ferrini e in un articolo di Giampaolo Tudini i suoi punti di forza. Si dimostrò come l’eroe della Decima fosse asservito agli interessi americani già all’epoca della R.S.I. e, grazie ad un documento redatto da Rodolfo Graziani, si rese noto che Borghese, in qualità di infiltrato del governo del Sud, fu incaricato di defenestrare quel “caporale di merda di Mussolini” e marciare sul Garda; azione che gli fu impedita da Alessandro Pavolini e dalle sue Brigate Nere. Invitato a difendersi da simili accuse, Borghese non si degnò mai di farlo alimentando il sospetto che si trattasse di verità piuttosto che di menzogne.
Alle elezioni del 1953, in seguito al rifiuto del Partito Comunista di creare un’alleanza organica delle forze di sinistra per evitare il dilagare della D.C. grazie alla “legge truffa”, i gruppi di Pensiero Nazionale confluirono nelle liste di Alleanza Democratica Nazionale, formazione promossa dall’ex ministro liberale Epicarmo Corbino, la quale, insieme con Unità Popolare, risultò determinante nell’evitare che scattasse il meccanismo dell’iniqua legge maggioritaria. Tali elezioni rappresentarono la fine del rapporto privilegiato delle formazioni di Ruinas con il P.C.I. La volontà di non voler rinnegare le proprie origini a favore delle manovre di un partito che faceva ancora dell’antifascismo uno spettro da usare a scopi politici portò Ruinas a proseguire da solo sulla propria strada.
Nel 1956, a Bologna, Pensiero Nazionale e i rappresentanti dei gruppi del Socialismo Nazionale diedero vita ad un incontro volto ad organizzare un Movimento di Sinistra Nazionale, che operasse sulla base di un programma fondato sulla rivalutazione storica della Repubblica Sociale e dei suoi postulati, sull’indipendenza assoluta dell’Italia e dell’Europa dai due blocchi e sulla creazione di una repubblica presidenziale fondata sullo stato nazionale del lavoro. Il 1956, inoltre, fu l’anno in cui Pensiero Nazionale assunse chiare posizioni filo-arabe, mostrando il proprio favore per l’Egitto di Nasser, l’Algeria e la Libia. Il 1977 sancì la fine delle pubblicazioni e di un’esperienza che può sembrare, all’apparenza, come una contraddizioni in termini. Provocatori?
Opportunisti? La storia che s’atteneva ai canoni di classificazione precedenti la caduta del muro di Berlino non è mai stata troppo benevola nei loro riguardi. Ma oggi il clima è mutato. Il verificarsi della “fine delle ideologie”, infatti, ci permette di superare i limiti imposti da certe analisi e da interpretazioni del fenomeno legate più a contingenze politiche che alla realtà oggettiva dei fatti.
Essa permette inoltre ai nuovi studiosi di analizzare, al di là di ogni vincolo, le affinità, molto più consistenti di quanto comunemente si possa credere, tra il fascismo ed il comunismo, senza esser vittima di quella gabbia ideologica che ha voluto le due ideologie fondamentali del secolo scorso come eternamente antitetiche.
Luigi Carlo Schiavone
Rinascita, Mercoledì 14 Novembre 2007
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