Socialismo e Socializzazione.
Di: Franco Morini.
DA RINASCITA.EU
Da tempo ormai acquisito che a partire dalla primavera del ’44 e fino
alla caduta militare della Rsi, vi furono diretti e costanti contatti
fra esponenti di sinistra, socialisti e formazioni della stessa
resistenza (v. brigate “Matteotti”), con alcuni ambienti fascisti più
spiccatamente socialrivoluzionari quali la “Muti”.
Infatti,
proprio nell’abitazione milanese dell’ex direttore de “La Sera” e poi
capo ufficio stampa della “Muti”, Gastone Gorrieri, si avviarono i
primi colloqui ben presto seguiti da una vera e propria intesa
ratificata in seguito dallo stesso Mussolini.
Tali rapporti
vennero facilitati dal fatto che proprio nell’appartamento sovrastante
l’abitazione del Gorrieri, in via Montenapoleone n. 24, operava da
tempo la redazione clandestina - si fa per dire - dell’”Avanti!”.
I
primi d’area più o meno fascista ad istaurare contatti diretti con i
socialisti tramite Gorrieri, furono Ugo Manunta e poi Edmondo Cione,
quindi il giro si allargò direttamente o indirettamente, al prefetto di
Milano, Parini e al questore Bettini, e poi su-su fino al ministro
Biggini, al capo della polizia, Montagna e infine, come accennato, allo
stesso Mussolini il quale mantenne con i socialisti contatti indiretti
tramite il prefetto a disposizione Nicoletti, più direttamente tramite
il socialista nazionale, Carlo Silvestri.
Scrisse a suo tempo
Manunta che, invitato nel luglio del ’44 a casa di Gorrieri, lo trovò
in compagnia di uno sconosciuto che gli si presentò come tal “Marino”
(Gabriele Vigorelli), membro dell’esecutivo del Partito Socialista
(Psiup), costui entrò subito in argomento avanzando l’ipotesi di una
tregua politica finalizzata ad una successiva collaborazione politica
fra gli elementi socialrivoluzionari delle due parti.
L’esponente
socialista si dichiarò, infatti, del tutto favorevole, qualunque cosa
avvenisse, alla salvaguardia delle recenti conquiste sociali varate
dalla Rsi e di voler pertanto difenderle da qualsiasi azione contraria
interna od esterna sia al fascismo che all’antifascismo e, proprio a
quel fine, proponeva di gettare un ponte… fra i vostri uomini e tra i
nostri [poiché] il Paese non è tanto diviso dal fascismo e
dall’antifascismo quanto dalla guerra. Metà degli italiani punta su un
esercito straniero, metà sull’altro. Quale sarà la carta vincente lo
diranno gli avvenimenti. L’importante è che dalla sconfitta di uno dei
due eserciti stranieri, l’Italia e gli italiani escano con il minor
danno possibile; questo deve essere lo scopo del “ponte”: mettere tutte
le forze di cui dispone il paese sotto un comando unico, che sarà
vostro nel momento cruciale se la vittoria sarà dei tedeschi, nostro se
vinceranno gli angloamericani [1].
L’accordo avrebbe dovuto così
sostanziarsi: in caso di vittoria dell’Asse, i socialisti si sarebbero
aggregati ai repubblicanosociali a difesa e consolidamento delle nuove
avanzate conquiste come la socializzazione e quindi nel fronteggiare
insieme gli eventuali sabotatori interni o esterni alla Rsi; qualora
l’avessero spuntata gli angloamericani riuscendo a forzare l’ultima
linea di difesa, identificata a quel tempo in quella del Po, le varie
brigate Matteotti col supporto dalle ex milizie fasciste avrebbero
proclamato nell’intero triangolo industriale Milano-Torino-Genova,
prima dell’arrivo degli Alleati a seguito della ritirata tedesca, la
Repubblica socialista del Nord Italia. [2]
Ovvio che un tal
progetto, se giudicato col senno di poi, non poteva che apparire
velleitario con tutto che non abbiamo ancora aggiunto il particolare
più curioso rappresentato dal fatto che, qualora non fosse stato
accettato il fatto compiuto della proclamata Repubblica socialista del
Nord, da parte di Alleati e sub governo del Cln, si era perfino
ipotizzato d’inviare un appello all’Urss perchè intervenisse in qualche
modo a difesa della neoproclamata repubblica socialista del Nord.
Velleitari
o meno, sicuramente non furono pochi coloro che in campo antifascista,
a fronte del topos di coniugare socialismo e nazione, finirono
inevitabilmente con amalgamarsi se non politicamente, quanto meno
socialmente, al modello economico fatto proprio dal loro
schmittiano“nemico assoluto”.
E’ il caso della formazione
prevalentemente – ma non esclusivamente - laziale [3], di “Bandiera
rossa”, i cui dirigenti rifiutarono di sottomettersi e riconoscere
l’autorità del Cln per il solo fatto che non tutti i partiti componenti
il Cln erano schiettamente repubblicani.
Oltre all’ inflessibile
pregiudiziale antimonarchica, Bandiera rossa propugnava dal punto di
vista economico la socializzazione dei grandi mezzi di produzione e di
scambio e su queste due precise basi oppose al Cln un suo Comitato di
Salute Pubblica ( d’ora in poi, C.d.S.P.) dopo aver assunto anche
l’indicativa denominazione di Federazione Repubblicana Sociale [4]:
Capo
dell’ala militare dei vari gruppi operativi di “Bandiera rossa – Fed.
Repubblicana Sociale” era il capitano dei granatieri Aladino Govoni,
futura vittima alle Ardeatine e figlio dello scrittore futurista,
Corrado Govoni, già segretario del sindacato fascista Autori e
Scrittori.
A proposito di Ardeatine, in una intervista di
Pierangelo Maurizio ad ex esponenti di Bandiera rossa, fra i quali
l’ultimo dei suoi fondatori, Roberto Guzzo, venne avanzata l’accusa che
l’attentato di Via Rasella fosse stato teso più che altro a ostacolare
e neutralizzare l’attività politica posta in essere a Roma dai gruppi
federati in Bandiera rossa – Fed. Repubblicana Sociale [5].
Pare,
infatti, non fosse un caso che giusto al momento dell’esplosione,
presso una latteria di via Rasella si stesse svolgendo una riunione di
militanti di Bandiera rossa.
Ed è anche volutamente poco noto il
fatto che fra le vittime dirette o indirette dell’attentato gappista,
oltre ai vari civili si contino anche due militanti di Bandiera rossa:
Antonio Chiaretti ed Enrico Pascucci. Circa la loro sorte, sussistono
ancora due distinte versioni, nessuna delle quali suffragata da
certezze, ovvero, se i due siano stati coinvolti direttamente
nell’esplosione o caduti, piuttosto, in uno scontro a fuoco con i
Tedeschi nel fallito tentativo di allontanarsi da via Rasella.
Nella
sostanza cambia ben poco e resta in ogni caso il fatto essenziale che
oltre ai due nominati, Bandiera rossa perse altri 68 militanti nella
successiva rappresaglia delle Fosse Ardeatine, tra i quali lo stesso
capo militare di B.r. Aladino Covoni mentre, per contro, non furono più
di tre le vittime Ardeatine più o meno riconducibili ai ciellenisti.
Parimenti ignoto è il fatto che Bandiera rossa, con circa 1.200
militanti ufficialmente riconosciuti con la qualifica di partigiani
combattenti, è stato il più forte e organizzato movimento politico
insurrezionale del Lazio, fatto questo che dava ovviamente non poco
fastidio alle mire egemoniche del Pci al quale ,infatti, si fanno
risalire le numerose delazioni che portarono all’arresto di numerosi
militanti di B.r. e alla loro successiva fucilazione come ostaggi nella
misura complessiva di ben 181 giustiziati[6].
Stessa cosa accadde
in Piemonte dove operava l’analoga formazione “Stella rossa”, che
contava molti più adepti del Pci ma che.. poco alla volta grazie a
segnalazioni anonime furono catturati dai tedeschi. Di chi fosse la
denuncia lo si sapeva, ma era meglio non dirlo [7]
Ma c’è ben altro.
L'attentato
di via Rasella servì a bloccare l’iniziativa posta in essere da
Bandiera rossa…contro l’imposizione imperialistica
anglo-russa-americana [ conclusasi in una trattativa diretta ] tra le
sane forze del Comitato di salute Pubblica e quelle naziste [8]; per un
accordo finalizzato al pacifico passaggio di poteri fra il comando
tedesco - autorità repubblicane e il C.d.S.P. che, fra l’evacuazione di
Roma da parte dell’Asse e prima ancora dell’arrivo degli
angloamericani, contavano di proclamare la Repubblica Romana dei
Lavoratori con l’intento di bloccare il rientro a Roma della dinastia
Savoia col suo sub governo di Salerno e implicitamente l’ occupazione
della capitale da parte delle truppe del colonialismo inglese e del
capitalismo statunitense.
Progetto, questo, che era stato avviato
dal C.d.S.P. nel gennaio del ’44 contattando il ministro dell’Interno
Buffarini il quale delegò alla trattativa un Direttore generale di P.S.
coadiuvato da un Questore, poi, tramite mediazione di Dollman, le
trattative tra repubblicani e tedeschi con il C.d.S.P. passarono
all’ufficio romano di Kappler [9] dove furono parzialmente sospese
durante lo sbarco ad Anzio per poi riprendere comunque in marzo [10] e
si stava già giungendo in vista dell’accordo quando l’attentato di via
Rasella bloccò definitivamente ogni iniziativa, anche perché la
presenza in via Rasella del gruppo di militanti di B.r. mirava ad
ottenere l’effetto, peraltro raggiunto, d’indurre i Tedeschi se non a
incolpare, per lo meno a sospettare del C.d.S.P. che, fra le altre
cose, si era impegnato a garantire che l’eventuale ripiegamento al Nord
di truppe e civili dell’Asse, potesse avvenire senza particolari
intoppi da parte antifascista.
Che queste non siano semplici
congetture, lo dimostra la cronaca giudiziaria tratta da “Il
Messaggero” del 19 giugno 1948 concernente il processo a Kappler il
quale, messo a confronto con il prof. Felice Anzaloni, che pur essendo
stato fra i partecipanti alle citate trattative , nella sua diversa
veste di teste lo stava biasimando per la “cieca rappresaglia”, Kappler
gli obiettò che .. anche voi siete stati ciechi. Vi siete prestati al
gioco degli alleati, tuttora vostri nemici, i quali servendosi dei
comunisti hanno ottenuto di annullare le trattative che avevamo in
corso.
Da allora, per oltre mezzo secolo non si riuscì mai a
varcare la soglia palesemente intermedia rappresentata da Amendola e
risalire ai veri mandanti dell’attentato di via Rasella, se si eccettua
la testimonianza al processo Kappler del gappista pentito Guglielmo
Blasi il quale riferì alla Corte che Calamandrei gli aveva mostrato
l’ordine operativo d’azione siglato E.E; sigla questa che coincideva
con le iniziali di Ercole Ercoli, pseudonimo moscovita di Togliatti
[11].
Questa rivelazione lasciò i più abbastanza scettici anche
perchè Togliatti era rientrato in Italia dall’Urss il 27 marzo, cioè
quattro giorni dopo attentato.
Sempre in via cronologica, il
giorno 25 i giornali romani divulgarono la notizia dell’avvenuta
rappresaglia e il giorno dopo, sarà anche un caso ma Amendola tentò
inutilmente di coinvolgere la Giunta militare del Cln nell’assunzione
di responsabilità dell’attentato ed è per questo che il 30 marzo, i
comunisti furono costretti ad assumersi la totale responsabilità
dell’attentato con un comunicato pubblicato su “L’Unità”..
Successivamente,
allorché nel corso del processo Priebke negli anni ’90, si tornò a
trattare per inevitabile connessione di via Rasella, su “Il
Contemporaneo” del febbraio 1996, Giorgio Prinzi scrisse che… con
l’attentato di via Rasella veniva conseguito il risultato di decapitare
(con il lavoro sporco affidato ai tedeschi) lo scomodo vertice della
resistenza militare la cui eliminazione era stata, secondo quanto
riferito da Amendola, esplicitamente richiesta da Carlo Andreoni,
vicesegretario del Psiup.
Considerato che la rivista marxista “Il
Contemporaneo” era stata fondata da Carlo Salinari, cioè uno dei
partecipanti all’azione di via Rasella e che inoltre fra i vari
collaboratori la rivista annoverava anche lo storico Piero Melograni a
cui Amendola aveva riferito del presunto ruolo d’ispiratore svolto da
Andreoni [12], non pare debba più sussistere alcun dubbio sul fatto che
l’attentato del 23 marzo fosse effettivamente finalizzato non tanto ad
una specifica azione militare, quanto a indurre i Tedeschi alla
rappresaglia sui loro diversi ostaggi.
Meno convincente appare
invece la chiamata in causa dell’esponente socialista nel ruolo di
ispiratore o peggio, mandante, anche perché Andreoni (impossibilitato a
smentire in quanto deceduto negli anni ’50) non solo all’epoca era un
fervente simpatizzante di Bandiera rossa [13], ma aveva addirittura
aderito,insieme a quel gruppo di socialisti rivoluzionari che a lui
facevan capo, alla Federazione Repubblicana Sociale.
Senza
contare che Andreoni, sempre in polemica con Nenni e Pertini, lasciò
ben presto il Psiup per confluire nel gennaio 1945, insieme a Bandiera
rossa, nel nuovo raggruppamento denominato “Spartaco”, fortemente
caratterizzato da una accanita opposizione al governo ciellenista.
Ultima
ciliegina sulla torta, è lo stesso Cione a riportare che Mussolini…
non aveva certo disapprovato le intese tentate da alcuni, tra cui
Manunta, con Carlo Andreoni, segretario del Partito socialista, che in
certo senso si mostrò pieno di comprensione per il fascismo di Salò.
[14]
E, infatti, circa un anno dopo l’uscita dell’ articolo di
Prinzi volto a coinvolgere Andreoni, venne a galla una nuova ma non per
questo sconcertante acquisizione giudiziaria: ispiratori e mandanti
della strage di via Rasella dovevano ricercarsi all’interno dei comandi
alleati o meglio ancora dell’OSS. Questo quanto in sintesi rivelato
l’11ottobre 1997, da Rosario Bentivegna e Carla Capponi “in gran
segreto”, al sostituto procuratore di Roma, Vincenzo Roselli, fatto così
chiosato da Pierangelo Maurizio:…insomma quelli che poi sarebbero
diventati i < nemici imperialisti > americani e inglesi avrebbero
dato mandato ai Gap comunisti di mettere a ferro e fuoco la capitale
per dare una mano dietro le linee a quella che era la macchina da
guerra più potente del mondo.. non mancando giustamente di far rilevare
come tuttavia ..l’azione di guerra di via Rasella non distolse dal
fronte un solo soldato tedesco [15]
Aveva quindi ragione Kappler
allorché fin dal 1948 accusò i comunisti di essersi prestati al gioco
degli Alleati innescando volutamente la duplice strage allo scopo di
scompaginare la particolare convergenza creatasi a Roma di forte
opposizione al Cln al governo badogliano e agli stessi alleati,
riuscendo effettivamente a bloccarne le trattative e,
contemporaneamente, a colpire a fondo gli odiatati deviazionisti di
Bandiera rossa.
Del resto, che al di là delle linee alleate
fossero seriamente in pena per la prospettata proclamazione della
Repubblica Romana dei Lavoratori, lo si deduce da un’altra
testimonianza fornita dallo stesso Bonomi al solito processo Kappler:
…ebbi
contatto con la Giunta militare del Cln una sola volta. C’erano due
tendenze: una di sinistra che aveva intenzione di impadronirsi del
potere al momento della liberazione di Roma e formare un governo
indipendente da quello del Sud e l’altra che intendeva consegnare la
città al governo legittimo. Quella fu l’unica volta che minacciai di
dimettermi se fosse prevalsa la tendenza di sinistra [16]
Mescolando
per bene le carte, Bonomi sembrerebbe voler far credere all’esistenza
di una frattura interna alla Giunta militare concernente la situazione
romana, spaccatura che non c’era affatto dal momento che i propugnatori
del “governo indipendente” non facevano parte – come già accennato –
di alcun organo del Cln che peraltro avversavano. L’intervento “unico”
di Bonomi sulla Giunta con relativa minaccia di sue dimissioni dal Cln
era dunque probabilmente un avallo, presumibilmente sollecitato o
concordato con i comandi alleati, in vista di un’azione risolutiva nei
confronti di quella “sinistra che aveva intenzione di impadronirsi del
potere al momento della c.d. “liberazione”.
Si deve quindi
allargare il campo sulle responsabilità dell’attentato di via Rasella,
dagli esecutori e mandanti - comunisti e Alleati - allo stesso vertice
del Cln e , di conseguenza, al sub governo di Salerno.
All’epoca,
infatti, Bonomi era ancora presidente del Cln, essendo allora in carica
il 1° governo Badoglio. Fatto singolare, e ancora tutto da spiegare, è
che Bonomi si dimise effettivamente dal vertice del Cln, ma in data 26
marzo 1944, ovvero il giorno stesso in cui la Giunta militare di Roma
si era rifiutata di assumersi la responsabilità collegiale
dell’attentato. Altro singolare abbinamento si avrà il 30 marzo quando
da una parte “L’Unità” rivendicherà ai soli comunisti l’azione compiuta
e, contemporaneamente, un comunicato dei vertici del Cln condannerà
ufficialmente la rappresaglia posta in atto dai Tedeschi senza tuttavia
pronunciarsi sul precedente di via Rasella.
Con questo non si
vuol certo affermare che l’attentato comunista sia spiaciuto al governo
del Sud e questo nonostante l’alto numero di militari badogliani che
furono sacrificati alle Ardeatine.
Infatti, proprio in quei giorni
di fine marzo e inizio aprile, il sub governo di Salerno varò in
fretta e furia una amnistia concepita apparentemente ad hoc per coprire
esecutori e mandanti dell’attentato di via Rasella. L’amnistia, datata
5 aprile 1944, copriva l’intero periodo precedente specie nei
confronti di chi avesse… come militare e come civile compiuto atti
diretti a frustrare l’attività bellica delle truppe tedesche o di chi a
esse prestavano aiuto.
Questo tempestivo provvedimento
legislativo varrà ad evitare che, una volta occupata la capitale da
parte degli eserciti alleati, qualsiasi inchiesta si fosse potuta
avviare nei confronti degli autori e mandanti di quella strage, e cosi
fù.
Resta in ogni caso delineata una coerente linea strategica da
parte della sinistra nazionale e antimperialista che raccorda il
progetto della Repubblica Romana dei Lavoratori a quella più nordista
della Repubblica Socialista del Nord Italia. Linea strategica
sviluppatasi nel tempo, dalla più cauta successione romana alla vera e
fattiva collaborazione per quanto concerne il Nord.
Si passò,
infatti, dalla Federazione Repubblicana Sociale della romana Bandiera
rossa, al Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista (RNRS)
milanese fondato da Edmondo Cione. Nel marzo 1945, il RNRS si dotò di
un proprio organo di stampa la cui testata prese il titolo mazziniano
di “Italia del Popolo” che nel contempo riecheggiava, come a volerlo
sostituire con una rinnovata prospettiva, quel “Popolo d’Italia” che
emblematicamente dal 25 luglio 1943, non aveva più ripreso la
pubblicazione. Fra marzo e aprile ’45, uscirono 13 numeri di “Italia del
Popolo” diretto da Cione e amministrato dal socialista Vigorelli
(alias “Marino”) che ricopriva anche la carica di amministratore unico
del movimento. Al giornale collaborarono Carlo Silvestri, i
repubblicani parmensi Zocchi e Icilio Fietta, e altri come Vatore,
Cella, Pandolfo, Janni, Sollazzo, Piacentini ecc.
Dal punto di
vista militare, il comandante in capo delle brigate “Matteotti”,
Corrado Bonfantini, si relazionava direttamente con i vertici della Rsi
allo scopo di creare raggruppamenti militari misti [17] da poter
utilizzare il giorno della proclamazione della Repubblica Socialista
del Nord.
Silvestri, ad esempio, cita perfino una formazione
armata al suo comando denominata “Decima Mat-teotti” forte di 200
elementi scelti fra la polizia effettiva e ausiliaria che avevano la
loro sede presso la direzione di polizia [18], quindi col presumibile
avallo dello stesso capo della polizia e ben noto interlocutore di
Silvestri, Montagna..
In effetti, nell’incombere della fine, Mussolini si era riservato tre possibili soluzioni finali:
1)
il passaggio diretto di poteri fra Rsi e Partito socialista; 2) un
trapasso condizionato (si chiedeva l’autorizzazione all’esistenza
politica del Pfr nella nuova situazione) tra Rsi e Clnai, in un rapporto
che si accavallò con la nota trattativa in arcivescovado; 3) ultima e
estrema resistenza nel ridotto valtellinese. E’ significativo che
Mussolini diede la precedenza alla prima soluzione quando il 22 aprile
convocò in prefettura Silvestri per dettargli la proposta di passaggio
di poteri da comunicare urgentemente all’Esecutivo e al C.C. del Psiup.
Il documento mussoliniano si apriva con la sua dichiarazione d’intenti
di voler….consegnare la Repubblica Sociale ai repubblicani e non ai
monarchici, la socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai
borghesi. Nel proporre questa trasmissione di potere egli [ Silvestri
scrive sotto dettatura di M, n.d.r.] si rivolge al Partito socialista,
ma sarebbe lieto se l’offerta fosse considerata ed accettata anche dal
Partito d’azione nel quale del resto prevalgono le correnti socialiste.
Non estende l’offerta al Partito comunista solo perché la tattica di
questo partito esclude che nell’attuale situazione internazionale esso
possa assumere in Italia atteggiamenti che sarebbero in contrasto con il
riconoscimento dell’Italia come zona d’influenza inglese [19]. Seguono
poi quattro punti contenenti vari paragrafi volti a regolare nei
dettagli il passaggio di poteri.
Silvestri inoltrò il documento
agli organi direttivi del Psiup tramite Bonfantini, pur essendo ben
conscio dell’impossibilità pratica di far fronte comune all’avanzata
alleata che aveva ormai superato il Po senza troppi problemi, specie
dopo che i Tedeschi avevano praticamente cessato di combattere a
seguito degli avanzati accordi di resa da parte del gen Wolff.
Il
progetto d’istaurare con le armi la Repubblica Socialista del Nord era
di fatto tramontata per la mancata evacuazione dei Tedeschi da un
parte e il rapido passaggio del Po degli Alleati, dall’altra. Tutto si
riduceva al paragrafo terzo del punto 3) della proposta mussoliniana in
cui si metteva a disposizione del Psiup una certa aliquota di militari
della Rsi nel caso che il Psiup, ed eventualmente il P.d.’A. e con
l’augurabile consenso del Pci, prendesse in consegna la citta di Milano
dalla Rsi. Ormai tutto era circoscritto alla sola, per quanto
importante, capitale lombarda.
La risposta pervenne nella
mattinata del 24 aprile per bocca di Riccardo Lombardi, allora massimo
esponente del P.d’A. a Milano, il quale informò Silvestri che la
proposta di Mussolini non poteva essere presa in considerazione in
quanto la trasmissione dei poteri ad un solo partito o ad un limitato
numero di partiti, avrebbe determinato la rottura del patto di unità
interno al Clnai provocando uno scontro dalle inimmaginabili
conseguenze e questo proprio nel momento in cui si prospettava la
vittoria completa. Silvestri tornò a riferire a Mussolini il quale solo
allora si decise a giocare quella seconda carta relativa ai rapporti
diretti con il Clnai in vista di una resa condizionata tramite la
possibile mediazione di Schuster con tutto quanto è poi seguito.
Il
25 aprile 1945 il Comitato insurrezionale del Clnai, riunitosi per
l’occasione tra le accoglienti mura extraterritoriali del Collegio
salesiano S. Ambrogio di Milano, decretava fra altre cose l’annullamento
delle leggi socializzatrici nello…stesso tempo in cui venivano
riconosciuti i Consigli di fabbrica[20] i quali si erano costituiti in
attuazione dell’ abolita socializzazione.
Una disposizione a dir
poco ambigua in quanto palesemente tesa a contemperare il più avanzato
retaggio sociale del fascismo col Moloh capitalista che stava
sopraggiungendo al seguito delle truppe d’invasione alleate.
Spogliati
di fatto d’ogni loro base giuridica, che restava in sostanza dei
Consigli di gestione aziendali, peraltro fin troppo speranzosamente
ribattezzati dal Clnai: “Consigli di gestione nazionali”?
Cosa
fossero questi neo Consigli “nazionali”, provò a chiarirlo Umberto
Sereni, presidente del Cln lombardo, informando i lettori de “L’Unità”
che:…i Consigli di gestione fascista vengono sostituiti da Consigli di
gestione nazionali in cui accanto ai rappresentanti degli azionisti
siedono a parità di diritto i rappresentanti effettivamente designati
dalle maestranze che partecipano alla gestione dell’impresa. E fin qui,
ben poco di nuovo rispetto ai passati Consigli, ma andando poi a
trattare il dettaglio della partecipazione agli utili d’impresa, vennero
subito a galla le prime magagne.
Per esempio, tra lavoro e
capitale la precedenza veniva assegnata a quest’ultimo garantendo
prioritariamente gli interessi in conto capitale da computarsi fino a
una soglia, non specificata, solo dopo la quale l’eventuale residuo
utile andava finalmente a beneficio del fattore lavoro. Sempre per modo
di dire, in quanto il “bonus-lavoro” non era più direttamente
atttribuibile alle relative maestranze aziendali giacchè la nuova
normativa emanata dal Clnai non contemplava affatto una distribuzione
diretta, dal momento che il surplus prodotto (o plusvalore) dopo aver
renumerato il capitale, doveva essere versato in un fondo generico a
indistinto beneficio di tutti i lavoratori, compresi i disoccupati, per
finanziare mense, assistenza orfani, malattie ecc.e ciò al fine…di
evitare sperequazioni e particolarismi che non potrebbero che
danneggiare la necessaria unità della classe operaia[21].
Come
dire che stringi, stringi, ai delegati eletti nei nuovi Consigli di
gestione ciellenisti era solamente concessa la mera presenza in tali
organismi, senza più alcun beneficio econonomico a favore dei loro
reappresentati.
Più che di socializzazione si può dunque parlare
di una evanescente chimera mirante solo a far decantare, col passare
del tempo, anche il ricordo della precedente socializzazione
mussoliniana nella quale, è il caso di sottolineare, venne abolita la
corporazione sindacale dei datori di lavoro in quanto nella Rsi
socializzata non c’era più spazio per gli ormai sorpassati sciur padron
da li beli braghi bianchi.
Nel nuovo modello di pretesa
socializzazione si poteva già vedere di che legno era fatta la scopa se
si “leggono” i toni tutt’altro che sovversivi de “L’Unità” dalla quale
si poteva apprendere che, a scanso di equivoci: …attraverso i Consigli
di gestione gli operai non s’illudono di diventare i padroni
dell’azienda, ma vogliono soltanto collaborare coi dirigenti
responsabili, sapere ciò che accade nell’azienda, sapere il perché ed i
limiti necessari delle rinunce temporaneamente accettate [22].
Di
fatto, nemmeno la pur modesta richiesta di poter per lo meno conoscere
i motivi per i quali si continuava sempre più a tirare la cinghia in
azienda, veniva di norma considerata da quegli imprenditori che si
apprestavano puntutamente ad operare in un ambiente economico in cui
era ormai stata restaurata la libera attività speculativa..
Ciò
premesso, per quale serio motivo i vertici aziendali avrebbero dovuto
far conoscere ai consiglieri eletti sì dalle maestranze- ma del tutto
privi di poteri giuridicamente riconosciuti - i loro vari propositi di
procedere quanto prima alla ristrutturazione dell’intero comparto
produttivo post-bellico, anche tramite licenziamenti generalizzati,
contando sulle collaudate leggi economiche di produzione capitalista
per le quali ogni sostanziale alleggerimento dei costi del fattore
lavoro equivaleva sempre ad un rispettivo incremento del valore
azionario.
In questo quadro ormai fin troppo sbilanciato, capita
anche che nel dicembre del ‘45 il sindacato allora unitario della Cgil
lasci decadere anche formalmente i Consigli di gestione nazionali per
avere in cambio dalla Confindustria, l’istituzione della nuova scala
mobile, l’introduzione del cottimo nonché l’equiparazione salariale fra
uomini e donne.
Alle maestranze venne del resto fatto credere
che in fin dei conti si trattava di un buon accordo anche perché i
principi socializzatori - al momento giuridicamente congelati -
sarebbero stati poi inseriti nella nuova Costituzione in modo da poter
pervenire ad un nuovo quadro normativo d’ispirazione costituzionale
valido per tutta la nazione e non più per le sole regioni della ex Rsi.
Una
volta accantonato anche l’ultimo ostacolo dei Consigli di gestione
che, per quanto già opportunamente sviliti dal Clnai, avrebbero comunque
potuto insidiare gli affabili rapporti fra sindacato [23] e
industriali, il 19 gennaio 1946 - Cgil e Confindustria stipularono un
accordo, ratificato poi dal Governo il 1° febbraio, in base al quale era
concordemente riconosciuta l’inderogabile necessità di procedere ad un
radicale ridimensionamento delle maestranze tramite massicci
licenziamenti, per quanto prudentemente scaglionati, allo scopo di
ristrutturare l’apparato produttivo in funzione post bellica.
Come
da manuale dello speculatore, i titoli azionari, specie quelli delle
industrie del Nord, iniziarono costantemente a lievitare fino a toccare
in aprile un picco passato poi alla storia dell’economia nazionale
come la prima ondata speculativa dell’Italia post-bellica, tale da
indurre il ministro dell’Economia dell’epoca, Corbino, ad imporre un
deciso calmiere all’abnorme crescita in valore dei titoli azionari.
In
questo difficile contesto, ai vari produttori subordinati altro non
restava che puntare su quelle norme socializzatici che, conservando un
certo ottimismo, si sperava venissero a far parte della nuova
Costituzione, così come era statopiù volte promesso. Un ottimismo
apparentemente non infondato quando si consideri che lo stesso Fanfani,
in qualità di membro della Commissione dei 75, incaricata di una prima
stesura degli articoli costituzionali, richiamandosi alla bozza
concernente l’articolo 43 (art. 46 nella stesura finale), così l’aveva
sintetizzata e fatta approvare in sede di sottocommissione: Lo Stato
assicura il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle
aziende ove prestano la loro opera.
Millantando il proprio ruolo
in questa bozza, Fanfani non mancò di chiarire che ..su sollecitazione
dei democristiani s’intende precisare che per l’impossibilità di
trovare un termine più appropriato [a “partecipazione”] era da
considerarsi comunque salva.. la possibilità di partecipare al
controllo dell’impresa anche in altre forme. E in tal modo si superò il
dissidio aspro fra comunisti e democristiani che per mio intervento [
Fanfani] avevano chiesto la partecipazione all’amministrazione, alla
efficienza, alla comproprietà, agli utili dell’impresa[24].
In
questa gara con i comunisti, mirante a dilatare il concetto di
partecipazione, sembrerebbe volersi far riconosce quel tal Fanfani, già
docente di diritto corporativo di non molti anni prima[25] .
Ma
tra il dire e il fare questa volta c’erano di mezzo i cosiddetti “padri
costituenti” i quali, nel caso in questione, si comportarono più che
altro da veri “padrini”della peggiore mafia politicante.
In sede
di Assemblea Costituente, l’art. 46 ( ex 43, della bozza ) venne
trattato, contrariamente alle aspettative, in modo fin troppo spiccio
per non dire elusivo. Un dibattito ridotto al minimo e con vaghe
affermazioni più di principio che di causa. A cominciare da Einaudi
(U.D.N.) il quale si dichiarò semplicemente contrario sia alla
compartecipazione agli utili che alla conduzione della azienda al fine
di evitare che maestranze e imprenditori potessero accordarsi per
taglieggiare la collettività (Cfr. Atti costituzional, pag. 4020).
Congettura chiaramente pretestuosa e del tutto opinabile specie sul
fatto che soci o azionisti dovessero considerarsi meno inclini alla
speculazione che non le rispettive maestranze.
Tassativamente
avverso ai Consigli di gestione si dichiarava pure il costituente Mario
Marina (U.D.N.) mentre, al contrario, si disse favorevole, il
socialista Tito Oro Nobili. Favorevolmente alla partecipazione delle
maestranze, ma per i soli utili di azienda, si espressero sia il
repubblicano Camangi che tale Puoti (U.D.N.). La formula definitiva si
deve però ad un emendamento presentato dal democristiano Gronchi e
fatto poi proprio dall’Assemblea, secondo il quale occorreva… elevare
il lavoro da strumento a collaboratore della produzione facendo
tuttavia salvo il principio che non vi è feconda attività produttiva
senza… l’unità di comando nell’azienda.
Grazie a questo
emendamento bassamente volpino, il termine “partecipare” venne così
sostituito nel testo definitivo col verbo “collaborare” e in tal modo
il gioco delle tre carte era compiuto. Anche se poteva sembrare solo
una blanda sfumatura linguistica, in realtà l’art. 46 si trasformava in
uno sterile pleonasmo giacché non era certo una novità ma semmai un
dato di fatto del tutto scontato che, per il solo fatto di eseguire il
loro lavoro le maestranze collaborassero già a tutti gli effetti alla
produzione aziendale.
L’evirazione compiuta su questo articolo
venne peraltro largamente facilitata dalla complice assenza nel
dibattito sia della componente sedicente comunista - che pure contava
oltre cento membri all’Assemblea costituente - che di quel tal Fanfani,
compagno di partito dell’affossatore Gronchi, il quale giusto qualche
mese prima si vantava, come riferito, di puntare al massimo rialzo in
concorrenza con il Pci, sull’ interpretazione più estensiva da dare
alla partecipazione delle maestranze alla gestione aziendale.
Mafiosi
“dell’onorata costituente” sia i referenti che i votanti; mafiosi
della peggior specie gli ingiustificati latitanti dalle grandi
promesse, si chiamassero Fanfani oppure Di Vittorio.
Dal 14 maggio
1947, data in cui venne mutilato art. 46, nessuno si è più curato di
lui; abbandonato alla sua sorte, oggi ben pochi si ricordano della sua
inerte esistenza e del resto questo era esattamente ciò a cui avevano
mirato i padrini costituenti e non tanto per un loro particolare
disegno , ma perché gli era oggettivamente impedito dall’ormai
restaurato vecchio assetto politico-economico.
Esemplare, a tal
proposito, la puntuale analisi espressa dai nazional-bolscevichi di
“Bandiera Rossa”, i quali avevano giustificato la loro ripulsa del
pateracchio esapartitico del Cln con questa profetica dichiarazione:
“Date alla società un equilibrio in senso borghese, rimettete la
società capitalistica in grado di funzionare, e voi avrete stroncato
ancora per una generazione [ad essere ottimisti n.d.r.] le possibilità
rivoluzionarie del proletariato”[26]
In effetti è del tutto
evidente che anche da un’angolazione prettamente marxista o leninista,
la tanto strombazzata “resistenza” ciellenista si è rivelata nei fatti
socialisticamente regressiva e pertanto oggettivamente reazionaria e
questo indipendentemente dalle possibili migliori intenzioni.
Note:
[1] U. Manunta “La caduta degli Angeli”A.E.I. Roma 1947, pag 83 e ss.
[2] Cfr. E. Cione “ Storia della RSI”, 1948, pag. 386.
[3] Bandiera rossa, oltre al suo caposaldo laziale, aveva propaggini specie in Piemonte (Stella rossa) e nel Bresciano.
[4]
Cfr. G. Genzius ( Roberto Guzzo) “Tormento e gloria – Verità alla
ribalta” 1964, pag. 427 e ss.. Il Guzzo , gia uffciale dei granatieri,
fu tra i primi fondatori del movimento che era sorto in ambito
prevalentemente militare fra il 1942 –’43. Originariamente si chiamava
Movimento Funzionalista e si definiva sia anti borghese-capitalista che
anti-colletivista. Successivamente prese la denominazione “provvisoria”
(sic) di Movimento Comunista d’Italia mentre “Bandiera rossa” era la
testata dell’organo del movimento (ivi . pag. 21)- I gruppi di “Bandiera
rossa” vengono oggi indicati come trotzkisti (v. Wikipedia) e ciò non
corrisponde al vero in quanto B.r. era tutt’altro che
internazionalista. Scrive, fra l’altro il Guzzo: ..Non Mosca e né
Londra o Washington potevano essere Roma. La Roma erede della civiltà
di tutti i popoli. (ivi pag. 137).
[5] Cfr. P. Maurizio “A via
Rasella morirono due marxisti, ma il Pci ha preferito dimenticarli” in
“Il Giornale” del 19 agosto 1996.
[6] G. Genzius cit. pag. 167.
[7] M. Randaccio “Le finestre buie del ‘43” 1993, pag. 382.
[8] G. Genzius cit.pag. 183.
[9] G. Genzius cit. pag. 156
[10] Id. pag. 159
[11] W. Spinelli “Processo Kappler” 1994, pag. 163.
[12] P. Melograni-G.Amendola”Intervista sull’antifascismo” 1976, pag. 172.
[13] Cfr. G. genzius cit. pag. 128.
[14] E. Cione cit. pag. 446.
[15] P. Maurizio “In viaRasella azione di guerra” in “Il Giornale” del 12 ottobre 1997.
[16] W. Spinelli cit. pag. 179.
[17]
Alla fine degli anni ’40 , ebbe un certo scalpore la notizia che il
generale della Gnr, Nunzio Luna, risultava contemporaneamente
appartenente, sotto le false generalità di Nino Rossi alla 152° Brig.
Matteotti. Al giornale “Il Merlo Giallo” che lo accusava di doppio
gioco, il Luna replicò che…La polemica apertasi dopo la pubblicazione
dell’< Europeo > ha reso ormai di domino pubblico i contatti che
intercorsero tra elementi della resistenza (fra questi il Bonfantini) e
responsabili della Repubblica di Salò: i miei amici e colleghi ed io
agimmo nella scia del programma tracciato da Mussolini. Sono fiero di
quello che feci, anche se poi fallì, perché < l’animus > era tale
che forse mai come in quel momento noi servimmo la nostra Patria
(“Gobba a levante, luna calante” in “Il Merlo Giallo” del 1 feb. 1949,
pag, 2.
[18] Cfr. C. Silvestri “ Matteotti, Mussolini e il dramma italiano” 1947, pag. 296.
[19]
Il documento integrale è stato pubblicato dal periodico “Settimo
Giorno” dell’11 ottobre 1951, pag. 8 sotto il titolo “Il fondamentale
documento del 22 aprile 1945” a firma di carlo Silvestri.
[20] F. Moffo “Storia di un proclama” Roma 1995, pag. 109
[21]
Cfr. Gli operai parteciperanno alla gestione delle aziende in
“L’Unità” del 5 maggio 1945, pag. 1 – edizione lombarda. L’ex
socializzazione fascista prevedeva che il tasso di renumerazione del
capitale fosse annualmente fissato con D.M. (art.44). L’assegnazione
degli utili ai lavoratori calcolati anno per anno, non potevano eccedere
annualmente il 30% della retribuzione annua precedente. L’eventuale
eccedenza superiore al 30% veniva destinata ad una Cassa di
compensazione destinata a scopi di natura sociale e produttiva (art.
44).
[22] Nascita del Consiglio di gestione alla Soc. Magneti Marelli in “L’Unità” del 22 giugno 1945, ed. settentrionale.
[23]
Data la sua conformazione ottocentesca il sindacato, unico o meno che
fosse, non poteva certo parteggiare per l’istituto socializzatore in
quanto il ruolo di un sindacato più o meno confederale all’interno di
una azienda socializzata diventava praticamente nullo essendo demandato
al Consiglio di gestione aziendale interno ogni aspetto
rappresentativo.
[24] A. Fanfani L’attività economica nel progetto
della terza sottocommissione per la Costituzione italiana in
“Humanitas”- fasc. n. 12 del dic. 1946, pag. 1244.
[25] …il
corporativismo fascista ha di mira il pacifico svolgimento della sua
attività economica senz’ombra di violenza o di arbitrio privato. A.
Fanfani in “Il problema corporativo nella sua evoluzione”, 1942.
[26] “ Due strade” in Bandiera Rossa n. 1 dell’8 gennaio 1944.
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