Fascisti di Sinistra:
«La destra è censura, reazione, bigotteria. E se ho un'appartenenza culturale è più al fascismo che alla destra, che mi fa schifo [...] Il fascismo che ho conosciuto in famiglia è quello libertario, gaudente, generoso. Penso al fascismo rivoluzionario dell'inizio e della fine, quello che non conserva ma cambia, quello socialista e socialisteggiante...»
Idee chiare e sentite quelle del ventottenne Nicolo Accame, giornalista del "Secolo d'Italia" intervistato, insieme a suo padre Giano, nel marzo 1996, da Stefano Di Michele: due fascisti, un padre e un figlio. Idee chiare e sentite che affondano in un diffuso e radicato retroterra esistenziale e culturale. Quello dei cosiddetti «fascisti di sinistra».
Anche quando Alberto Giovannini, giornalista di lungo corso, classe 1912, è stato costretto a definirsi ha dovuto per forza di cose ricorrere a quell'apparente ossimoro: «Io sono stato fascista a modo mio. Era, il nostro, un fascismo di sinistra». E aggiungeva: «Non potevo non avere una certa fedeltà e riconoscenza verso quel regime attraverso il quale io, che ero nessuno, figlio di povera gente, di operai, cominciando col fare il fattorino, ero arrivato a dirigere un quotidiano. Il fascismo mi aveva dato la possibilità di avanzare socialmente. Non lo avevo dimenticato ...».
E quando, a metà degli anni '80, durante la presentazione di una riedizione dello "Scrittore italiano" di Berto Ricci, i dirigenti missini Pinuccio Tatarella e Beppe Niccolai, furono anche loro costretti a definirsi, le due risposte risultarono antitetiche. Più che "di destra", di "centro-destra" si definì Tatarella, ricollegandosi alla tradizione politica che negli anni '50 avevo visto molte città del Mezzogiorno amministrate da coalizioni composte da MSI, destre liberali e monarchiche e DC. Sicuramente "non di destra", anzi "di sinistra", si dichiarò invece Niccolai, riagganciandosi a tutt'altra tradizione. Una tradizione che affondava le sue radici nel Mussolini giacobino, nel socialismo risorgimentale di Pisacane, nel sindacalismo rivoluzionario di Sorel e Corridoni, nelle avanguardie artistiche d'inizio Novecento, nel fascismo sansepolcrista del 1919, nell'interpretazione gentiliana del marxismo...
Se infatti storicamente il fascismo nasce con Mussolini e "Il Popolo d'Italia" tra il 1914 e il 1919 da una scissione del partito socialista, il filosofo cattolico Augusto Del Noce ne ha retrodatato la genesi filosofica al 1899 con la pubblicazione del saggio di Giovanni Gentile su "La filosofia di Marx", che venne considerato da Lenin -nel "Dizionario Enciclopedico russo Granat" del 1915- uno degli studi più interessanti e profondi sull'essenza teoretica del pensatore di Treviri. Del marxismo, Gentile respingeva il materialismo ottocentesco ma ne abbracciava con entusiasmo l'ultramoderna dimensione di «filosofia della prassi», tesa non solo a interpretare il mondo ma a cambiarlo. Stando almeno all'interpretazione delnociana, quindi, il fascismo non sarebbe affatto una negazione del marxismo, ma piuttosto una sua "revisione" che reinterpreta la prassi come spiritualità. Il fascismo si prospetta, insomma, come una rivoluzione "ulteriore" rispetto a quella marx-leninista. D'altro canto, divenuto filosofo ufficiale del fascismo, Gentile ripubblicò il suo libro su Marx nel 1937, nel pieno degli "anni del consenso". E quando, il 24 giugno 1943, pronunciò in Campidoglio il Discorso agli italiani per esortarli a resistere agli anglo-americani, si rivolse espressamente agli ambienti di sinistra presentando il fascismo come «un ordine di giustizia fondato sul principio che l'unico valore è il lavoro». E precisò: «Chi parla oggi di comunismo in Italia è un corporativista impaziente». Lo stesso Lenin, del resto, rivolgendosi nel 1922 al comunista Nicola Bombacci aveva potuto dire: «In Italia c'era un solo socialista capace di fare la rivoluzione: Benito Mussolini».
Nel fascismo di sinistra ci sono davvero tante cose: il percorso politico dello stesso Bombacci, il comunista finito a Salò e appeso con Mussolini a Piazzale Loreto; la covata ribelle dei giovani intellettuali aggregati attorno all'ex anarchico fiorentino Berto Ricci e alla sua rivista "L'Universale"; il "lungo viaggio" dal fascismo al comunismo di tanti intellettuali, da Davide Lajolo a Fidia Gambetti, da Felice Chilanti a Ruggero Zangrandi, da Elio Vittorini a Vasco Pratolini, da Ottone Rosai a Mino Maccari. Fermenti e contraddizioni che hanno indotto lo storico Giuseppe Parlato a dedicare un intero libro alla cosiddetta "sinistra fascista": «Quell'insieme, a volte discorde e contraddittorio, di sentimenti, di posizioni, di prospettive e di progetti che si fondavano sulla persuasione di vivere nel fascismo e attraverso il fascismo una sorta di palingenesi rivoluzionaria, la prima vera rivoluzione italiana dall'unità».
E delle varie anime del fascismo, la "sinistra" fu sicuramente la più vivace. Ancorata al Risorgimento mazziniano e garibaldino, la sinistra fascista cercò di incarnare un progetto che era nato prima del fascismo e che mirava ad oltrepassare la stessa esperienza mussoliniana. E se nei primi tempi essa si tradusse essenzialmente nello squadrismo e nel sindacalismo, verso la metà degli anni '30 -aggregando soprattutto i giovani universitari, gli intellettuali e i sindacalisti - si fece portatrice di un "secondo fascismo" teso a superare la società borghese. Non è un caso che i vari Bilenchi, Pratolini e tutti i giovani intellettuali del cosiddetto "fascismo di sinistra", oltre che in Berto Ricci, trovassero un punto di riferimento nel fascista anarchico Marcello Gallian. «I libri di Gallian -scriveva Romano Bilenchi su "Il Popolo d'Italia" del 20 agosto 1935- sono documenti... E un documento su di un periodo rivoluzionario non creduto compiuto non avrà fine finché tutta la rivoluzione non sia realizzata».
Quest'anima di sinistra conviverà nei vent'anni del regime con altre componenti. E nonostante il suo essere per molti versi un "progetto mancato", marcherà sempre il Ventennio, influendo decisamente sull'identità culturale sia del fascismo che del postfascismo.
Confesserà Bilenchi, diventato comunista dopo la guerra: «Rimasi molto legato a queste idee diciamo così, socialiste... Del fascismo mi colpì il programma, più a sinistra, almeno a parole e almeno agli inizi, di quello degli altri... Poi ho conosciuto Berto Ricci, una persona seria, onesta e simpatica. Era un anarchico, filosovietico, ed era entrato nel partito fascista convinto di partecipare a una rivoluzione proletaria».
Del resto, già nel 1920, Marinetti aveva scritto: «Sono lieto di apprendere che i futuristi russi sono tutti bolscevichi... Le città russe, per l'ultima festa di maggio, furono decorate da pittori futuristi. I treni di Lenin furono dipinti all'esterno con dinamiche forme colorate molto simili a quelle di Boccioni, di Balla e di Russolo. Questo onora Lenin e ci rallegra come una vittoria nostra».
E resta agli atti che il 16 novembre 1922, proprio con un intervento alla Camera di Mussolini presidente del Consiglio, l'Italia fu il primo dei paesi occidentali a dichiararsi disponibile al riconoscimento internazionale dell'Unione Sovietica. Un'apertura che, almeno fino alla guerra di Spagna, non verrà mai meno. Nel giugno 1929, Italo Balbo, in una delle sue celebri trasvolate dall'Italia approdò a Odessa nell'URSS, e lì venne accolto con un picchetto d'onore. E il 4 dicembre 1933, Mussolini ricevette ufficialmente a Palazzo Venezia il ministro degli esteri russo Maxim Litvinov: da tre mesi i due paesi avevano sottoscritto un patto d'amicizia e l'occasione rafforzò ulteriormente le buone relazioni.
Erano gli anni in cui il filosofo Ugo Spirito arrivava a teorizzare -nel convegno di Studi corporativi di Ferrara del 1932- la «corporazione proprietaria» che prevedeva di fatto l'abolizione della proprietà privata, e in cui pullulavano le pubblicazioni addirittura filosovietiche, tra le quali un libro di Renzo Bertoni, che, reduce da una permanenza nell'Unione Sovietica, pubblicava nel 1934 un libro intitolato addirittura "Il trionfo del fascismo nell'URSS", sulla cui copertina si vedeva uno Stalin con la mano aperta e in una didascalia si leggeva: «Stalin saluta romanamente la folla».
Poi, la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale e la repubblica di Salò. E proprio quest'ultima scatena vivaci discussioni tra Mussolini e Hitler. Per il dittatore tedesco quell'esperienza doveva chiamarsi «Repubblica fascista italiana». Mussolini, invece, senza più obblighi compromissori con la monarchia e gli ambienti conservatori, avrebbe preferito «Repubblica socialista italiana», tornando in qualche modo alle suggestioni sansepolcriste. Ma di quell'aggettivo che puzzava di sovversione e di marxismo Hitler non volle sentirne parlare. E alla fine si accordarono su Repubblica Sociale Italiana. E sia pure ridotto a "sociale", la parola socialista tornava nel lessico dei fascisti. Tanto da emozionare il socialista della prima ora ed ex comunista Nicola Bombacci -colui che aveva fatto adottare il simbolo della falce e martello ai comunisti italiani- e a farlo riappacificare con Mussolini: «Duce -gli scrive l'11 ottobre 1943- sono oggi più di ieri totalmente con Voi. Il lurido tradimento re-Badoglio che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l'Italia, Vi ha però liberato di tutti i componenti pluto-monarchici del '22. Oggi la strada è libera e a mio giudizio si può percorrere sino al traguardo socialista».
In uno degli articoli scritti poco prima di essere ucciso dai partigiani, il giornalista Enzo Pezzato -redattore capo a Salò di "Repubblica fascista"- scrisse: «Il Duce ha chiamato la Repubblica "sociale" non per gioco: i nostri programmi sono decisamente rivoluzionari, le nostre idee appartengono a quelle che in regime democratico si chiamerebbero "di sinistra"».
E nei giorni del crepuscolo di Salò, Mussolini confiderà al giornalista socialista Carlo Silvestri: «Il più grande dramma della mia vita si produsse quando non ebbi più la forza di fare appello alla collaborazione dei socialisti e di respingere l'assalto dei falsi corporativi. I quali agivano in verità come procuratori del capitalismo... Tutto quello che accadde poi fu la conseguenza del cadavere di Matteotti che il 10 giugno 1924 fu gettato fra me e i socialisti per impedire che avvenisse quell'incontro che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla politica nazionale».
Sull'esperienza della RSI, Enrico Landolfi ha scritto che non fu un unicum: «Fu, viceversa, una sfaccettatissimo prisma, un fenomeno pluralistico. Tanto vero che fu in essa presente quasi tutto lo spettro dottrinario e politico». Landolfi sottolinea la presenza al suo interno di esponenti della stessa sinistra antifascista disposti a collaborare per l'attuazione del cosiddetto "Manifesto di Verona": oltre a Bombacci e a Carlo Silvestri, Edmondo Cione, Germinale Concordia, Pulvio Zocchi, Walter Mocchi e Sigfrido Barghini. Accanto a loro, c'era soprattutto a Salò una vasta «aggregazione più coerentemente e conseguentemente rivoluzionaria, socializzatrice, popolare-nazionale, libertaria. Disponibile, inoltre, quest'ultima, e anzi fautrice, del dialogo con l'antifascismo, proclive alla più ampia democratizzazione della Repubblica, decisa a resistere alle interferenze e alle rapine naziste, inequivocabilmente antiborghese e anticapitalista». E anche per questo, Landolfi ha titolato un suo libro sulla RSI: "Ciao, rossa Salò". Quella "rossa repubblica" che Bombacci salutò per l'ultima volta, prima che i partigiani lo fucilassero, con le parole: «Viva Mussolini! Viva il socialismo!».
Nell'immediato dopoguerra il tema del recupero politico, o almeno elettorale, di chi era stato fascista nel Ventennio ma anche nella RSI, interesserà, più o meno scopertamente, anche il PSI e il PCI, i partiti dove troveranno accoglienza molti fascisti di sinistra. Così, nell'agosto 1947, Palmiro Togliatti, che l'anno prima in qualità di ministro di Grazia e Giustizia aveva concesso l'amnistia ai fascisti, sul quotidiano comunista "La Repubblica d'Italia" scriveva: «Non nascondiamo le nostre simpatie per quegli ex fascisti, giovani o adulti, che sotto il passato regime appartenevano a quella corrente in cui si sentiva l'ansia per la scoperta di nuovi orizzonti sociali... Noi riconosciamo agli ex fascisti di sinistra il diritto di riunirsi e di esprimersi liberamente conservando la propria autonomia».
E anche il leader socialista Pietro Nenni, intervistato da "Paese Sera" il primo gennaio 1955, legittimava i fascisti di sinistra: «Da noi la destra esprime soltanto istinti antisociali, di conservazione e di reazione. Tipico il caso dei fascisti che, per inserirsi nella politica reazionaria americana, non hanno esitato a pugnalare ancora una volta il loro capo e a rinnegare l'unico elemento rispettabile della loro tradizione, vale a dire l'opposizione al dominio delle cosiddette plutocrazie». E lo stesso Nenni, se alla vigilia delle elezioni del 1953, aveva aperto le pagine de "l'Avanti!" all'ex direttore fascista de "La Stampa" di Torino, Concetto Pettinato, già nell'immediato dopoguerra aveva favorito la nascita di una rivista -"Rosso e Nero"- con la quale il fascista di sinistra Alberto Giovannini tentava di conciliare le attese fasciste della "rivoluzione incompiuta" con quelle socialiste della "rivoluzione mancata".
In questo clima, un gruppo di fascisti di sinistra si raccoglierà attorno alla rivista quindicinale "Il Pensiero Nazionale" diretto dallo scrittore e giornalista già repubblichino Stanis Ruinas. Verranno definiti «fascisti-comunisti», «comun-fascisti», «camicie nere di Togliatti» e «fascisti rossi», definizione quest'ultima che dopo qualche esitazione finiranno anche per accettare. Ma il "rosso" di questi fascisti non fu necessariamente quello del PCI, ma un rosso più articolato, più complesso, più variegato. Tanto che, persino nella sua componente più incline alla linea di Botteghe Oscure, vi fu una divisione tra il gruppetto che volle entrare -ed entrò- nel PCI e gli altri che preferirono restare indipendenti. Dopo il '53, il gruppo de "Il Pensiero Nazionale" si avvicinerà ai socialisti, ai socialdemocratici e alla sinistra cattolica, finendo per gravitare nell'orbita del presidente dell'Eni Enrico Mattei e del suo nazionalismo democratico e mediterraneo. Ma non mancheranno rapporti e scambi con gli esponenti della sinistra fascista interni al MSI.
Leader riconosciuto della sinistra missina delle origini fu indiscutibilmente Giorgio Pini: giornalista vicino a Mussolini prima e durante la RSI, sarà assiduo collaboratore de "Il Pensiero Nazionale" a partire dal 1954, dopo che, nell'aprile del '52, abbandona il MSI e, nel '53, si interrompe il legame da lui non gradito tra la rivista e il partito comunista. Ma in realtà tutti gli anni '50 hanno registrato contatti e confronti, anche pubblici, tra i giovani comunisti e i giovani dirigenti missini, soprattutto negli anni del dibattito sull'ingresso dell'Italia nella NATO. E nel 1958, lo stesso Palmiro Togliatti arrivò a difendere la cosiddetta «operazione Milazzo» che, in Sicilia, realizzò l'alleanza amministrativa tra il MSI e il PCI.
In un intervento alla Camera, il 9 dicembre, il leader comunista disse: «Le convergenze che si sono determinate hanno dato luogo, anche qui, alle solite inette arguzie sul comunista e sul missino che si stringono la mano, si abbracciano e così via. Si tratta di un problema di fondo che deve essere riconosciuto e apprezzato in tutto il suo valore, daremo il contributo attivo a che passi in avanti vengano compiuti». D'altra parte, anche dopo la fuoriuscita di Giorgio Pini dal MSI -ancora lontano dal diventare il partito della "destra nazionale"- al suo interno rimase e fu sempre attiva una vasta e articolata presenza di "fascisti di sinistra": Ernesto Massi, Bruno Spampanato, Diano Brocchi, Giorgio Bacchi, Roberto Mieville, Domenico Leccisi, Giuseppe Landi, Ugo Clavenzani e Beppe Niccolai... E lo stesso Giorgio Almirante, prima di diventare segretario del partito e di lanciare la "grande destra", fu per molti anni un esponente di punta della sinistra interna.
Ernesto Massi, grande studioso di geopolitica, professore all'Università Cattolica di Milano e vicesegretario nazionale del MSI dal 1948 al 1952, esce dal partito nel 1957 per tentare esperimenti politici autonomi. Fino al 1965 anima con Giorgio Pini un «Comitato di iniziativa per la sinistra nazionale». E solo dopo il fallimento del "Partito Nazionale del Lavoro" -che pure nel 1958 si presenta alle elezioni politiche in cinque circoscrizioni- e l'esaurirsi, nel 1963, della sua rivista "Nazione Sociale", tornerà nel 1972 a riavvicinarsi al MSI attraverso l'Istituto di studi corporativi.
Nel 1963, comunque, mentre si chiudeva l'esperienza di "Nazione Sociale", nasceva a Roma "L'Orologio" diretto da Luciano Lucci Chiarissi, una rivista e un laboratorio che riproponeva la tradizione del "fascismo di sinistra" in termini nuovi e molto più attenti all'evoluzione degli scenari italiani ed internazionali. Lucci Chiarissi, nato ad Ancona nel 1924, era stato volontario a Salò, aveva militato nell'immediato dopoguerra nel movimento clandestino dei FAR (Fasci di azione rivoluzionaria), e si era sempre sentito appartenente a una "sinistra nazionale". "L'Orologio" tentava di uscire dalla strada del "rancore eterno" e del nostalgismo fine a se stesso, contestando non solo il MSI micheliniano, ma anche i gruppi extraparlamentari come "Ordine nuovo" e "Avanguardia nazionale". Spiegava Lucci Chiarissi: «Annibale non è alle porte e comunque non lo è a causa del centro-sinistra». E "L'Orologio", che aveva lanciato il tema della riappropriazione delle "chiavi di casa", sostenne De Gaulle contro il Patto Atlantico e nella guerra dei "sei giorni" si schierò dalla parte dei paesi arabi contro l'imperialismo israeliano. «"L'Orologio" -ha scritto Giuseppe Parlato- individuò nel capitalismo e nell'imperialismo americano un pericolo maggiore di quello sovietico per la cultura e la politica italiana... E a differenza di tutti gli altri fogli neofascisti, "L'Orologio" assunse immediatamente una posizione nettamente a favore dei vietnamiti e della loro lotta per l'indipendenza».
Sono gli anni in cui accanto -e spesso a fianco- di tanti gruppi extraparlamentari di destra, sorgono anche gruppi extraparlamentari ispirati al "fascismo di sinistra". Così, la sezione italiana della Giovane Europa di Jean Thiriart titolava «Per un socialismo europeo» un documento fiorentino del 1968. E così, nel 1967, nasceva la "Costituente nazionale rivoluzionaria", fondata da Giacomo De Sario: classe 1927, ex segretario della federazione giovanile socialdemocratica ed ex dirigente della Giovane Italia. Con un simbolo rosso e nero, «rosso per la socialità, nero per la nazione», quel movimento -tra i cui esponenti di spicco c'erano i giovani Massimo Brutti e Massimo Magliaro, l'uno futuro dirigente del PCI e poi dei DS, l'altro diventerà capo ufficio stampa di Almirante e poi giornalista RAI- si faceva conoscere attraverso un periodico: "Forza Uomo", settimanale di lotta con redazioni a Roma, Milano, Varese e Brindisi. Il primo numero andò in edicola il 10 agosto 1969. Tra i riferimenti culturali c'erano Mazzini e Pisacane, Corridoni e Gentile, Mussolini e i futuristi.
Nel solco della stessa tradizione si collocava la "Federazione Nazionale Combattenti della RSI", di cui nel '70 divenne presidente Giorgio Pini. Nel discorso di insediamento, Pini condannava l'atteggiamento dei fascisti che «sbandano verso la destra conservatrice e autoritaria, totalitaria, in ibrido connubio coi monarchici e coi più retrivi gruppi confessionali», invitando inoltre a respingere «il fanatico occidentalismo di destra pervenuto fino alla servile esaltazione di Nixon, il bombardatore del Vietnam», e condannando «ogni collusione coi regimi militari e liberticidi dei colonnelli greci, del generale Franco, sacrificatore della nobile Falange di José Antonio Primo de Rivera, del regime ottusamente conservatore, classista e colonialista di Lisbona, di quelli razzisti del Sud Africa e della Rhodesia». In quegli anni la Federazione faceva uscire a Roma una serie di pubblicazioni -il quindicinale "Fnc-RSI notizie", il mensile "Corrispondenza repubblicana", il trimestrale "Azimut" e il foglio giovanile "Controcorrente"- di cui erano animatori Romolo Giuliana e P. F. Altomonte (sigla quasi pseudonima con la quale si firmava l'artista futurista Principio Federico Altomonte).
Scoppiato il '68, sia la "Fnc-RSI" sia "Forza Uomo" sia "L'Orologio" si schierano naturalmente con la contestazione. "L'Orologio", anzi, appoggiò la protesta giovanile anche sul piano organizzativo, dando vita ai "Gruppi dell'Orologio" e fornendo sostanza culturale alla trasformazione in senso "rivoluzionario" di alcuni ambienti di matrice neofascista. E dopo la fine e la diaspora di quell'esperienza, il loro animatore, Luciano Lucci Chiarissi, fonderà l'associazione politico-culturale "Italia e Civiltà" che, nei primi anni '80, si farà promotrice di una serie di incontri pubblici sul nuovo "socialismo tricolore" attivato dalla svolta craxiana.
Dentro o fuori il MSI, quindi, una certa tradizione non è mai morta. E quella che potremmo chiamare l'ultima incarnazione di un "sinistra" scaturita dall'universo neofascista, si esprimerà a metà degli anni '70 con presupposti e riferimenti inediti. Questa volta si trattava di un fenomeno più generazionale ed esistenziale che ideologico in senso stretto. A prenderne atto, nel gennaio 1979, fu Giorgio Galli su "Repubblica" parlando di «fascisti in camicia rossa». Figli degli anni '70, questi nipotini inconsapevoli di Berto Ricci e Nicolino Bombacci, rivelavano un percorso parallelo a quello che, sull'altro versante, andavano conducendo i coetanei della "nuova sinistra". E Galli ne metteva in luce alcuni «elementi diversi da quelli consueti» e, in particolare, l'aspirazione a sintonizzare ed aggregare «la protesta antisistema dei giovani, dei disoccupati, del sottoproletariato».
Si trattava di un vasto fermento giovanile emerso in quegli anni e che si poteva cogliere attraverso pubblicazioni come "La Voce della Fogna" e "Linea", in cui comparivano argomenti e toni inediti per la precedente pubblicistica neofascista. Si introducevano temi nuovi, come l'attenzione ai diritti civili e alle tematiche ambientaliste. "Nucleare? Dieci volte no", si leggeva sul secondo numero di "Linea". E sempre sulle pagine di quella rivista apparivano la prima vera inchiesta sui "Verdi" tedeschi, l'apertura di un dibattito sulla liberalizzazione della droga, e pagine e pagine sui nuovi bisogni e sulla condizione giovanile. Emergeva, soprattutto, il quadro di un ambiente caratterizzato da una linea libertaria, garantista, antistatalista, ambientalista, antioccidentalista e, addirittura, con venature regionaliste e antiproibizioniste.
«Sfondare a sinistra», era il titolo di un articolo di Marco Tarchi che, sul terzo numero di "Linea", lanciava in grande stile un'espressione destinata ad avere successo. Già nel '76, del resto, lo stesso Tarchi era stato autore di un documento del "Fronte della gioventù" toscano in cui, esaminando le cause della sconfitta elettorale, si invitava a «sfondare a sinistra»: molti elettori -era la tesi di Tarchi- avevano votato per il PCI non perché comunisti, «ma perché spinti da un'ansia di cambiamento, e disgustati dal modo di gestire la cosa pubblica instaurato dalla DC e dai suoi alleati».
Questa componente giovanile troverà la sua identità soprattutto nell'esperienza dei Campi Hobbit. E paradossalmente, tra il 1976 e il 1982, individuerà il proprio referente all'interno del MSI in quel Pino Rauti che pure, nei decenni precedenti, era stato il campione dell'ala tradizionalista e di matrice evoliana del neofascismo. Come ha scritto lo storico Pasquale Serra, «nella seconda metà degli anni '70 Rauti rovescia lo schema del suo precedente ragionamento: da un lato, infatti, egli individua come fonte privilegiata il fascismo italiano (il fascismo della sintesi) e non più il nazismo o i fascismi "minori", come era invece avvenuto nei decenni precedenti, e dall'altro riporta il fascismo alle sue origini di sinistra».
E questi orientamenti, sino agli anni '80, si esprimeranno anche in alcune esperienze di amministrazione locale, dove il MSI governerà insieme al PCI e al PSI. Così nel 1987, durante una tribuna politica, Giorgio Almirante fu messo in imbarazzo da un giornalista che gli chiedeva lumi su quanto avveniva a Furci Siculo, un centro del messinese dove il missino Carmelo Briguglio era il vicesindaco di una giunta rosso-nera.
La sintesi e la summa di tutta questa tradizione -da "L'Universale" al "socialismo tricolore", dall'adunata di piazza San Sepolcro ai Campi Hobbit- potrebbe essere rappresentata dalla figura politica e umana di Beppe Niccolai: fascista di sinistra da sempre, deputato missino per tre legislature, intellettuale, giornalista, uomo politico e, soprattutto, "uomo di carattere" per dirla col suo maestro Berto Ricci. Nato a Pisa il 26 novembre 1920, combattente sul fronte africano, prigioniero di guerra nel "Fascists' Criminal Camp" di Hereford nel Texas. Appena tornato in Italia, il 27 settembre 1948, scrive una lettera-documento sulla lacerazione della sua generazione al suo vecchio amico Romano Bilenchi che in quegli anni, seguendo la strategia dell'attenzione togliattiana, si occupava sul "Nuovo Corriere" del dialogo con i fascisti. E l'amicizia tra Niccolai e Bilenchi durerà per tutta la vita. Da deputato missino, Niccolai non ebbe poi remore a elogiare il Vietnam vittorioso sull'imperialismo americano. Per molti anni stretto collaboratore di Giorgio Almirante, ne divenne il principale antagonista nei primi anni '80 quando ebbe il coraggio di «farsi del male» e di avviare una coraggiosa autocritica, che pretendeva da tutto il partito una riflessione altrettanto sincera.
Niccolai sollecitava una rilettura degli errori compiuti nei confronti della contestazione giovanile, verso i nuovi fermenti culturali e, soprattutto, in tema di politica estera. «Beppe -ha ricordato Altero Matteoli- "scavava" nei personaggi che incontrava nella sua quotidiana lettura. E per ognuno esaltava la parte che lo aveva particolarmente colpito. Carlo Pisacane: lo affascinava la sua vicenda, la sua morte, il suo sacrificio. Nicolino Bombacci: Beppe era convinto che il fascismo, per il rivoluzionario romagnolo, fosse una rivoluzione da compiere. Berto Ricci: il carattere, il coraggio civile. E infine Italo Balbo: la morte ha colpito Beppe mentre "scavava" nella vita, nell'azione e nel pensiero del grande ferrarese».
All'inizio degli anni '80, Niccolai trasforma Berto Ricci in una vera e propria "bandiera": e lo fa nel momento stesso in cui il MSI comincia a stargli sempre più stretto e l'esigenza di un rinnovamento lo porta a cercare, nel passato, un riferimento dalla grande capacità fascinatrice. E in questo percorso non può che incontrarsi, naturalmente, con alcuni giovani della generazione dei "fascisti in camicia rossa". Nel 1984 -e quella fu l'unica opposizione alla leadership almirantiana al quattordicesimo Congresso missino svoltosi a Roma- presenterà il documento "Segnali di vita", che verrà sottoscritto entusiasticamente dalle componenti giovanili e creative del partito. Nel 1985, in occasione della crisi di Sigonella, Niccolai fece approvare dal Comitato centrale del MSI un ordine del giorno di sostegno a Craxi, in nome dello "scatto" di orgoglio nazionale. D'altra parte, come spiegò dopo la sua morte lo stesso Tatarella in una riunione del Comitato centrale missino, Niccolai voleva fare del MSI una sorta di «laburismo nazionale»: era, insomma, un autentico uomo di sinistra e, in prospettiva, sognava una convergenza strategica tra il MSI e la sinistra italiana.
Una posizione minoritaria, quella di Niccolai: quasi eretica, fortemente combattuta, ma in grado di pensare una politica capace di cogliere le onde lunghe della storia italiana. Nel 1987, resta memorabile il suo discorso al Congresso di Sorrento. Con cui, in nome di Nicolino Bombacci, invitava alla ricomposizione delle "scissioni socialiste". In quegli anni con la sua rivista "L'Eco della Versilia", sarà il punto di riferimento più forte per il dissenso interno e i tentativi di dialogo con l'esterno. E quando morirà a Pisa, il 31 ottobre del 1989, lascerà il testimone al suo collaboratore viareggino Antonio Carli. "L'Eco" cambierà nome trasformandosi in "Tabula Rasa". E intorno alla rivista si raccolgono Gianni Benvenuti e Pietrangelo Buttafuoco, Umberto Croppi e Beniamino Donnici, Vito Errico e Fabio Granata, Luciano Lanna e Peppe Nanni... Sono l'ultima covata di una vecchia tradizione. Che a tratti si profila con la forza di mito. E a tratti, invece, con l'instabilità di un'illusione ottica. Ma che ha avuto il pregio di non rimanere mai ristretta all'interno di un partito, e men che meno di una corrente. Sprigionando energie e intuizioni che hanno comunque influito sui percorsi politici e culturali di tutto il postfascismo.
Luciano Lanna e Filippo Rossi da "Fascisti immaginari", Vallecchi, 2003.
Fascismo eretico
Paolo Signorelli
Da "l'Universale" a "Tabularasa": un viaggio attraverso il Fascismo eretico
Berto Ricci, Beppe Niccolai, Antonio Carli:
tre nomi da inscrivere nella storia dell'eresia.
L'eresia di quel Fascismo «immenso e rosso» cantato appassionatamente e suggestivamente da Drieu e riproposto con lucidità di analisi da De Benoist.
«La nostra strada non va né a destra né a sinistra. Va avanti dritta»
(Ernst Jünger)
Noi non possiamo e non vogliamo, tanto per essere chiari, identificarci con la destra. Da anni ci siamo battuti su posizioni altre, verso un ambizioso e però legittimo posizionamento «al di là della destra e della sinistra» che, a ben vedere, sta a significare il superamento di categorie concettuali estranee alla nostra visione del mondo. Non può esserci per noi -neppure sul piano della provvisorietà "pragmatica"- una scelta di campo a destra, laddove la destra rappresenta un'acritica accettazione di valori ritenuti tradizionali e che, invece, inverano la conservazione di un mondo di cui nulla può essere salvato, perché esso coincide con la difesa dell'Occidente che è nemico dichiarato non soltanto del pensiero eretico ma di qualsivoglia tensione ideale diretta a rifiutarlo ed a scardinarne l'assetto politico, sociale ed economico.
La dicotomia destra-sinistra continua a rappresentare l'alibi di comodo di quanti (vedi Area) non hanno il coraggio di schierarsi sulla trincea dell'antagonismo che solo può rappresentare il superamento di un tempo disegnato dalla congiunzione di Giuda con Caino. Quanto poi è sostenuto da coloro i quali intendono risciacquare la loro cattiva coscienza di rinnegati cercando di dare contenuti ideali alle loro scelte di potere, vale appena ricordare che la destra o è «destra» o è «sociale»: nel momento in cui la destra si fa sociale automaticamente si estingue come destra. (1)
La sfida politico-culturale epocale è tra l'integrazione e la ribellione al Pensiero Unico che pretende omologare, globalizzare, uni-formare, distruggere le diversità e le identità popolari. Una sfida che significa per il non-conforme andare oltre, al di là degli stanchi stereotipi rappresentati dalla destra e dalla sinistra. Anche «per farla finita con la destra» come sostiene in un suo lucido pamphlet Stenio Solinas che pure proviene dai ranghi della nouvelle vague intellettuale di destra.
Io non vengo da lì. Io appartengo ad una generazione che per una manciata di minuti non ha potuto prendere parte all'ultima battaglia della guerra del sangue contro l'oro. Non fui nel tempo giusto un leone morto, ma non sono diventato un cane vivo…
La mia generazione ebbe, a guerra finita, pessimi maestri. Vili, impostori, felloni, voltagabbana.
Il "viandante" intraprese il suo viaggio con due libri nel suo tascapane: "I Proscritti" di Von Salomon e "Rivolta contro il mondo moderno" di Julius Evola. Poi imparò a coniugare Nietzsche e Heiddeger con Platone, Marinetti con Papini, Codreanu con La Rochelle, Brasillach con Céline, Ortega y Gasset con Ezra Pound. «A Eleusi han portato puttane …». Poi Berto Ricci e Jünger… E divenni correttamente eretico e jüngerianamente ribelle. E la ribellione e l'eresia hanno sempre caratterizzato il mio impegno politico e culturale. D'altronde quando si aderisce ad una Weltanschauung trasgressiva che «non va di moda» perché non puzza di usurocrazia, la contrapposizione, l'antagonismo sono obbligati e non si può non cadenzare il passo lungo le vie insidiose, ma capaci ancora di suscitare entusiasmi, della lotta. Non si accetta il popperiano miglior mondo possibile: lo si combatte e basta.
Tutto questo dovevo dirlo: personalizzando un percorso perché coincidente con la trasgressione e l'eresia di altri che è, a dir poco doveroso, ricordare per avere essi battuto «i sentieri del Terribile». Un'avanguardia procede senza voltarsi indietro a guardare cosa fanno le salmerie. E una pattuglia di notte ha come guida il sogno e le stelle.
BERTO RICCI
«Ci sono Inghilterre che abbiamo dentro di noi che bisogna abbattere E sono quelle, è quello il male: là dove prevale, là è il nemico».
Berto Ricci, dunque, e "l'Universale". E i ragazzi che a venti anni partirono volontari per andare a combattere per una Patria che non è una figura retorica, né sopraffazione delle Patrie altrui, ma la difesa delle identità minacciate. Berto Ricci, l'eretico ed il credente in una Rivoluzione che si era impantanata nelle trappole dell'Ordine Costituito.
«Non c'è cosa peggiore per il rivoluzionario di vincere la rivoluzione» sostiene Jean Cau colloquiando con il Che (2).
«Avevi tu, che non avrai mai quarant'anni, sì, la paura di una morte ben più terribile di quella che ti avrebbe folgorato. Quella del guerrigliero in te. Quella del cacciatore. Quella dell'Angelo. Quella dell'artista. Hai trentanove anni, l'età in cui, dice Hugo, "si scende, svegli, l'altro pendio del sogno". Verrà il tempo dell'ordine e delle ragioni del mondo? Bisognerà appendere fucili e sogni alla rastrelliera? E vivere, mio Dio, vivere, o mio Dio, vivere come? E sentirsi invecchiare in vanità ed onori?».
L'Ordine Costituito. Berto non aveva vent'anni quando insieme con i ragazzacci che con lui vivevano l'esperienza eretica de "l''Universale" sfidava, in pieno regime, «la protervia e la decadenza culturale di molti federali in orbace e stivaloni» pronti a balzare sul carro del vincitore di turno. E pure credeva nella funzione imperiale dell'Italia e del Fascismo, convinto -come scriveva nel "Manifesto realista"- che esso avrebbe esercitato una Rivoluzione «centro d'una imminente civiltà non più caratteristica d'un continente o d'una famiglia di popoli, ma universale».
E ci si arruola e si va morire a vent'anni, a trent'anni. Non invecchiando in vanità ed onori.
«Viene dopo le finte battaglie, il giorno in cui c'è da fare sul serio e si ristabiliscono di colpo le gerarchie naturali: avanti gli ultimi, i dimenticati, i malvisti, i derisi. Essi ebbero la fortuna di non fare carriera, anzi di non volerla fare, di non smarrire le proprie virtù nel frastuono degli elogi mentiti e dei battimani convenzionali. Essi ebbero la fortuna di assaporare amarezze sane, ire sane, conoscere lunghi silenzi, sacrifici ostinati e senza lacrime, solitudini di pietra, amicizie non sottoposte all'utile e non imperniate sull'intrigo».
Vi è una testimonianza su Berto Ricci di un uomo che fu lo scettico per eccellenza, «un epilettico della morale» come ebbe a definirlo Beppe Niccolai. Uno diventato antifascista e poi rimasto a presidiare «l'Italia, smaliziata e utilitaria, degli Italiani che non credono più». Uno cui piacque vivere nella culla di quella grassa borghesia che gli diceva «quanto sei bravo».
Ecco quanto scriveva nel 1955 Montanelli in un articolo dal titolo "Proibito ai minori di 40 anni". «Quando dalla cittaduzza andai a conoscere il direttore del periodico "l'Universale", col quale avevo scambiato alcune lettere, anche per me il fascismo cominciò a contare qualcosa. Egli fu il solo maestro di carattere che io abbia incontrato in questo Paese, in cui il carattere è l'unica materia in cui si passa senza esame. E quando di lì ad alcuni anni ebbi deciso di voltare le spalle al fascismo, fu soltanto di lui che mi preoccupai. Infatti, andai proprio a Firenze a parlargliene. Mi stette a sentire, poi disse pacatamente. "Queste sono faccende in cui s'ha da vedersela con la propria coscienza e nessuno può essere d'aiuto a nessuno. Io ti dico soltanto una cosa, non pensare ai vivi, pensa a quelli che, per restare fedeli con le nostre idee, ci sono rimasti. Per non arrossire di fronte a noi stessi, e l'uno di fronte all'altro, qualche cosa si è fatto e Paolo Cesarini ci ha lasciato una gamba e Carlo Rotolo ci ha lasciato la vita, lui che forse era quello a cui la vita più sorrideva. Pensaci e pensa anche che se imbocchi quella strada devi batterla sino in fondo, sino al confino o sino all'esilio. Questo solo richiedo: di poter continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di stimarti come amico e come alleato"».
Quell'«epilettico della morale» consumò, notoriamente, il suo tempo rincorrendo -e con successo- i «luccichii» che tanto gli piacevano, Berto Ricci scelse con coerenza la via ultima della lotta e della morte.
E di lui scriverà Corvié, un altro che gli fu amico e che poi traslocò in altri settori politici: «Non gli bastava essere artista, voleva conoscere le ragioni del suo vivere, come uomo tra gli uomini, non si accontentava delle parole, voleva cose. Generoso e disinteressato, per sé non chiedeva che sacrifici, sofferenza e morte. Non i suoi nemici dovevano aver paura di un simile carattere, ma i suoi amici, quelli della sua parte».
Ma quale parte, ci chiediamo? Non quella dei "farabuttelli", i babbuini -come li chiamava Berto Ricci- dell'Ordine Costituito sempre pronti, poi, a voltare gabbana e a scendere in strada a cose fatte per inneggiare a chi ha vinto.
La toscanità eretica di «un maledetto» come la chiamerà Malaparte. Anzi di tutti quei maledetti che hanno saputo sempre appassionarsi e scannarsi per la fazione, come accadde tra guelfi e ghibellini, tra neri e bianchi. E come accadde nell'agosto del '44 quando si trovarono dinanzi, in uno dei tanti appuntamenti della loro storia, rossi e neri. Quando fu passato per le armi "Alfredino" (cfr. Alfredo Magnoldi, il campione europeo dei pesi gallo) e quando furono fucilati dai rossi, sulla gradinata di Santa Maria Novella, i ragazzacci fascisti. Ragazzacci di 15-16 anni. «Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino. C'era anche una ragazza, fra loro, giovanissima, nera d'occhi e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s'incontra spesso in Toscana tra le donne del popolo». (3)
«Ecco, questa è la Firenze di Berto Ricci. Ed ecco perché Berto Ricci ce l'ha con gli agnostici, con gli indifferenti. E dice che sono una vecchia peste di questo Paese dal tranquillo vuoto interiore. Noi per questo vuoto interiore non daremmo un atomo del nostro doloroso cercare, del nostro errare umano. Berto, in definitiva, sta con la gente che discorre, che opera, che disprezza e si rode alla maniera italiana».
Così, anche così, volle ricordarlo Beppe Niccolai, il 10 dicembre 1988 a Modugno in un intenso incontro comunitario organizzato per il Centro culturale "La Quercia" da Pino Tosca. Un altro eretico morto in età ancora giovane e che mai divenne «un cane vivo».
BEPPE NICCOLAI
«Non è importante la vita. Importante è ciò che si fa della vita»
«Denunciare nemici mortali che sono dentro di noi: la partitocrazia che genera professionismo politico contro la militanza; la casta contro l'impegno morale; la burocratizzazione; la corte e i cortigiani; la tendenza a ridurre il partito periferico ad una rete di piazzisti del voto, e che conduce ad una selezione verticistica della classe dirigente secondo le fedeltà, non alle linee ideali, ma alle persone che hanno il potere».
In queste parole di Beppe Niccolai si racchiude la concezione militante dell'eretico della politica, di chi intende la lotta come trasgressione a fronte del conformismo della "casta" dei politicanti e come coerenza con l'impegno morale del combattente dell'Idea. Un combattente di razza che sa, come Berto Ricci, cosa stanno a significare «le Inghilterre che stanno dentro di noi» e che quelle ha cercato sempre di abbattere. Con l'impegno febbrile, con l'esempio, con l'abnegazione generosa, con la denuncia, con l'insegnamento di vita. Maestro di pensiero ma ancora prima di stile. Fuori dagli steccati, avendo come nemici il conformismo, il burocratismo, l'assistenzialismo. Odio e amore: che vivono in maniera forte, nell'intensità e nell'inquietudine di chi non conosce la resa, di chi rifiuta la via della fuga.
Tutto questo e tanto altro ancora apprendiamo dai suoi articoli, dai suoi appunti, dai suoi interventi parlamentari, dal "Rosso e Nero e da "Duello al Sole", le rubriche curate da Niccolai sul "Secolo d'Italia", su "Pagine Libere", su "L'Eco della Versilia".
In molti -"camerati" ed avversari- hanno ricordato dopo la morte il «Fascista corsaro». Molti di quei camerati hanno abbandonato la trincea della trasgressione o hanno preteso realizzarla su posizioni di comodo "altre".. Novelli "babbuini" che non hanno saputo far loro l'insegnamento di vita di quello che a lungo ritennero essere il loro maestro. Carità di patria -o forse soltanto il fastidio- ci spingono a non elencarli.
Ci piace, invece, ricordare le parole di Pietrangelo Buttafuoco, che lo vide come il riferimento degli eretici. «Beppe Niccolai aveva la capacità di vedere la realtà senza l'affanno elettorale. Raccoglieva intorno a sé il "mondo degli umili e degli indifesi" e diede alla militanza politica un senso ed un imperativo categorico. Il senso e l'imperativo categorico di un impegno costruito con il cemento del progetto. A lui, infatti, un uomo già monumento per stile e dirittura morale, si rivolsero gli inquieti e tutti quelli che dopo avrebbero lasciato la Destra alle loro spalle. Non c'è oggi in circolazione un fascista che non abbia avuto da Niccolai un regalo: la fotocopia di una pagina importante, un libro sottolineato nei punti giusti, una lettera». (4)
Un «libro sottolineato», non suo: egli non scrisse libri. Come non ne scrissero Berto Ricci e Antonio Carli. Anche questo rappresenta un segno distintivo di chi vive la trasgressione inviando segnali di vita e fornendo esempi di stile che, a ben riflettere, è il modo di concepire la lotta lontano dalle cattedre imbalsamate e dagli orpelli degli intellettuali.
Nel febbraio del 2002 si tenne a Roma, presso l'affollatissima sala "Marinetti" del Ripa All Suites Hotel, un Convegno su Beppe Niccolai e Antonio Carli al quale parteciparono Pietrangelo Buttafuoco, Giampiero Mughini -suo caro amico e caro "nemico"- (5), e Domenico Mennitti. L'incontro, organizzato dal Fronte Sociale Nazionale, non volle «avere il sapore cinereo di una commemorazione», ma volle essere una riproposizione di Niccolai «per l'attualità del suo pensiero, che non ha certo perso di smalto con l'andare degli anni ma dimostra di aver saputo cogliere "prima" le avvisaglie di situazioni politiche che si sarebbero "poi" puntualmente appalesate». Un incontro voluto fortemente da me che non potei nei "tempi giusti" conoscerlo e frequentarlo, perché impegnato su posizioni altre o sequestrato nelle galere del sistema. Un incontro la cui centralità fu rappresentata dalla necessità avvertita di riprendere la via tracciata da Niccolai prima e da Antonio Carli poi -da "L'Eco della Versilia" a "Tabularasa"- per marciare ancora più convinti lungo quei sentieri che «già sono delineati innanzi a noi».
Al suo, al loro fianco -uomini «difficili da raccontare» nella loro maledetta toscanità non fiorentina ma versiliana- furono sempre i più «moderni», i ragazzacci irriducibili, insofferenti ad ogni forma di compromesso e di ipocrisia.
Non a caso Beppe Niccolai fu l'unica voce fuori dal coro nel Congresso missino di Roma del 1984, con la mozione "Segnali di Vita" sottoscritta con entusiasmo dalle componenti giovanili e creative del partito. Il MSI: quel partito al quale aveva aderito sin dal ritorno dalla terribile esperienza del "Fascist's criminal camp" di Hereford nel Texas, in cui era stato internato insieme a Giuseppe Berto, a Roberto Mieville, a Carlo Tumiati -solo per ricordarne alcuni-, senza mai piegarsi e mai collaborare. Da quella esperienza, anzi, attinse ancora più forza per le sue battaglie politiche, mai allineate. Dalla relazione di minoranza alla Commissione antimafia (che gli valse l'elogio di Leonardo Sciascia), all'interrogazione parlamentare che fece esplodere il caso dell'Argo 16 "sabotato" dagli agenti del Mossad, all'elogio al Vietnam vittorioso sull'imperialismo americano si snodò un percorso non-conforme, culminato non a caso con il rifiuto nel 1976 di una nuova candidatura parlamentare. Al «gusto del Palazzo», alla poltrona preferì, insomma, la militanza avviandosi in una dura autocritica che cercò, senza risultati, di estendere a tutto il partito.
Gli anni '80 furono gli anni della rilettura puntuale e feroce degli errori compiuti verso la contestazione giovanile ed in politica estera. Gli anni in cui con la rivista "L'Eco della Versilia" Niccolai costituì il più forte punto di riferimento per il dissenso interno e di dialogo con l'Area delle forze antagoniste al sistema di potere.
Alla sua morte sarà Antonio Carli, divenuto direttore di "Tabularasa" a raccogliere l'eredità spirituale del suo Fascismo rosso, rivoluzionario ed anarchico.
ANTONIO CARLI
«… a risvegliare questo nostro Popolo ed obbligarlo a tendere l'orecchio a richiami antichissimi sì da armonizzarli con il genio sopito... per incamminarsi oltre i bacini morti dell'abulia e della rinuncia»
Antonio Carli è un altro a non avere cercato mai il potere, ad aver fatto sempre e comunque quel che sentiva giusto, al servizio dell'Idea, rivendicando per sé e per la sua gente quel «diritto alla follia» di cui ebbe a scrivere sull'"Eco" prima e su "Tabularasa" poi, quando decise con un manipolo di eretici di continuare a cantare la trasgressione. Un manipolo che si andò nel tempo assottigliando a seguito delle solite scelte di campo dette "trasgressive", ma che in realtà costituirono un abbandono della trasgressione. Non tutti -diciamocelo a cuor leggero- ebbero la capacità di correre il pericolo nella dimensione disperante del deserto. Ci sono revisioni e revisioni: c'è chi ha la forza e la "tigna" di essere ragazzaccio sino in fondo, di battersi «con l'ostinato orgoglioso carattere degli antichi Tusci» e tenta con caparbietà e con rabbia di "rivedere" coerentemente ad un credo quanto dai vincitori imposto, e c'è chi rivede se stesso e le sue idee e la sua antica appartenenza, recidendo d'un colpo legami umani e la fede. Arrendendosi senza avere l'onestà di ammetterlo. Roba da babbuini, insomma, travestiti da ribelli. Anche in questo caso non faremo elenchi: sarebbe sin troppo facile mettere all'indice i "revisori" della propria coscienza. E, quindi, inutile. Comunque dispendioso di energie che ad altro debbono servire.
Antonio Carli, dunque, il portabandiera della follia non perbenista. L'uomo e il camerata, sicuramente il compagno di lotta che per comporre le pagine squinternate di "Tabula" sveniva a notte attossicato dagli acidi. Lui che aveva una salute minata dal male e dalla incazzosità di un'esistenza maledetta. Come la sua toscanità.
Io lo ho amato e l'ho riguardato con ammirazione. Altri ancora continuano ad amarlo, ricostruendo il suo percorso politico attraverso i suoi scritti.
Non recitiamo altre parole: le riterremmo offensive, oltre che limitanti, per lui. Per questo, anche per questo, vogliamo ricordarlo con quanto da lui scritto sull'editoriale del primo numero di "Tabularasa" (7)…
«… Presuntuosi noi di "Tabula Rasa". Pensiamo di aver preso contatto col sole, di aver dissetato il nostro spirito nell'oasi, di esserci sentiti bruciare sul rogo. O forse, chissà! Siamo gli adolescenti avidi di luce che bevvero appena qualche sorso alla sorgente del sole e rimasero con la sete nell'ombra. Oppure, chissà! Crediamo di essere capaci di fare ciò che fece Michelangelo, genio selvaggio: portare alla luce, senza destarla, la Notte addormentata in una crisalide di marmo. Ma una cosa è certa: dei fiori sentiamo tutto il profumo, dei frutti tutto il sapore. Per questo siamo usciti dal tempio infestato da mercanti, da prestatori di lacrime ad usura che esplicano la mansione di rigattieri dell'altrui sacrificio, da rivenditori di elogi funebri, da speculatori della morte, da trafficanti della nostalgia. Lo sappiamo: le solite cassandre, presaghe di sventura, ci annunciano per via l'ingratitudine e l'oblio, un deserto di freddezza ed un oceano di solitudine. Non ce ne curiamo. La solitudine acuisce la mente, feconda il pensiero, rende sereni i giudizi. Siamo usi a vivere in siffatta maniera poiché sappiamo che tal comportamento è privilegio di pochi, ma agguerriti uomini. Che riscuotono consenso e stima. A ciò noi aneliamo. Soprattutto. Abbiamo avuto la capacità di separarci dal male per guardarlo dall'alto. Nella bolgia rimangono i deboli che vi si immergono per berne tutto il veleno e ai margini del trono del potere (immaginario e irraggiungibili) vagano nella paura e nella smodata ambizione di prebende. Senza badare al tipo dello sponsor… E s'ingrossa la folla dei cortigiani. Noi siamo pochi, è vero. Ma non ci turba la sensazione del deserto. Andiamo avanti. Con la nostra terrena miseria, con la nostra indomabile fierezza…Parliamo con la gente, la gente ci ascolta, la gente è la nostra bandiera… La gente, il popolo… Il popolo che soffre, che lavora e alla cui ombra si muovono i piccoli uomini della scena politica, i satiri corrotti e impotenti della vita pubblica».
E ancora. «La società sta vivendo una fase di transizione. La filosofia moltiplica i suoi sistemi, la scienza le sue leggi, il commercio i suoi mercati, ma la vita di ognuno impoverisce giorno dopo giorno. La tristezza di chi soffre non può durare in eterno. Il nostro modo di intendere la politica esula da quello che si definisce "tradizionale". Non c'è una maniera onesta o disonesta di intenderla. Essa non può avere aggettivazioni. Vogliamo parlare dei morti due volte defunti alla vita e alla memoria, dei morti oscuri due volte seppelliti bell'oblio e nella fossa, dei non accolti alla fama, dei ripudiati dalla sorte, dei gregari della vita, dei diseredati che non possono levare la fronte alla superficie dell'opinione. Questi gli scopi della nostra battaglia, della nostra nuova avventura…Noi di "Tabula Rasa" ci siamo dimissionati dall'uniforme canea della vita "politica" del sistema per seminare il sale sul suo terreno. Per inaridirlo totalmente».
Stammi bene canaglia: ci rivedremo all'Inferno.
Paolo Signorelli
«Noi, tabularasa, quelli che… un calcio in culo al sistema. Questo è il luogo sacro dell'anticonformismo ideoantroposociopsicologico: il paradiso dei rompicoglioni, del politicamente scorretto. Di quelli che non ci stanno; che non credono alla destra e alla sinistra e non sognano neppure il grande centro. Quelli che al sistema preferiscono le due colonne. Quelli che detestano l'America e Dio stramaledica gli inglesi. Quelli che la tribù è molto meglio del villaggio globale. Quelli che sognano un nuovo disordine mondiale. Quelli che vaffanculo la coca cola e l'hot dog. Quelli che le Borse ce l'hanno sotto gli occhi per l'insonnia e il Pensiero Unico è un nuovo modello di dichiarazione dei redditi e perciò evadono le tasse. Quelli che al diavolo Eurolandia. Quelli che il TUS è un pericolosissimo retrovirus custodito nelle Banche centrali e ci vorrebbe un vaccino. Quelli che l'Occidente è un punto cardinale e il Mediterraneo nonsolomare. Quelli, infine, che il gendarme planetario lo impalerebbero alla statua della libertà. Sì, questo è il sito degli antagonisti, degli antiborghesi, dei non moderati, degli antilabliberisti, degli anarcofascisti, dei camercompagni, del rosso e del nero a denominazione di origine controllata, degli estremisti del terzo sentiero, dei militanti del cazzimperio. Non c'è bisogno di carte di credito. Frequentaci e te ne pentirai».
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BIOGRAFIE
Berto Ricci (Firenze 1905 - Bir Gandula 1941). Professore di matematica a Prato, Palermo e Firenze, da giovane si interessò di occultismo ed ebbe simpatie anarchiche. Aderì al Fascismo nel '27. Collaborò a diverse riviste e nel '31 fondò "l'Universale". Oltre a "Il Rosai" ('30), "Poesie"('30) e a "Corona ferrea" ('33), pubblicò "Errori del nazionalismo italico" e diede il suo contributo a "Processo alla borghesia". Combatté in Etiopia nel '37 e, partito volontario allo scoppio della II Guerra Mondiale, fu uno dei primi a cadere.
Beppe Niccolai (Pisa 1920 - Pisa 1989). Giornalista, «se n'andò in Africa, leticando con Affarini Guidi, abbandonando il Corso Allievi Ufficiali e lasciando quella Divisione Folgore in formazione a Tarquinia nei cui ranghi era corso primo tra i volontari universitari». Catturato dagli inglesi finì a Hereford (Texas) nel "Fascist's criminal camp". Molti anni prima delle rivelazioni di Acque sul genocidio dei soldati tedeschi, rievocò più volte le dure condizioni nei campi americani e la non civiltà degli statunitensi. Rifiutò di apprendere l'inglese. Tornato in Italia aderì al MSI nelle cu fila venne eletto per due legislature alla Camera dei Deputati. Poi rifiutò il Palazzo ed iniziò il suo percorso critico nei confronti della destra istituzionale, culminato con l'esperienza eretica de "L'Eco della Versilia", sognando un grande "Convegno della diaspora". Articoli, appunti, dibattiti, conferenze, interviste, documenti politici costituiscono il suo patrimonio ideale e culturale.
Antonio Carli (Smirne 1933 - Viareggio 2000) Giornalista. Non ancora adolescente falsificò i documenti per arruolarsi nella Repubblica Sociale Italiana. Militò a lungo nel MSI senza ricoprirne mai cariche ufficiali, spesso su posizioni di contrasto con la dirigenza e con la linea politica. Uscì definitivamente da quel partito al tempo della I Guerra del Golfo per intraprendere l'avventura di direttore della rivista antagonista "Tabularasa". È stato, non soltanto in campo politico ma anche in quello editoriale, l'erede di Beppe Niccolai.
NOTE
1) Enrico Bandoli, "Tabula Rasa", dicembre '96. A commento de "La Destra Sociale" di Giano Accame.
2) Jean Cau, "Una passione per Che Guevara", Vallecchi, aprile 2004.
3) Curzio Malaparte, "La Pelle".
4) Pietrangelo Buttafuoco, da "Percorsi", "Fascista Impossibile".
5) Convegno del FSN dell'8 febbraio 2003, "Il maestro di vita e l'eretico, per una nuova sintesi sociale e nazionale".
6) Giampiero Mughini,"Fascista di sinistra" in "Compagni addio", Mondatori,1987.
7) Antonio Carli, "Perché Tabula Rasa", "Tabularasa", Anno I, 1992
2) Jean Cau, "Una passione per Che Guevara", Vallecchi, aprile 2004.
3) Curzio Malaparte, "La Pelle".
4) Pietrangelo Buttafuoco, da "Percorsi", "Fascista Impossibile".
5) Convegno del FSN dell'8 febbraio 2003, "Il maestro di vita e l'eretico, per una nuova sintesi sociale e nazionale".
6) Giampiero Mughini,"Fascista di sinistra" in "Compagni addio", Mondatori,1987.
7) Antonio Carli, "Perché Tabula Rasa", "Tabularasa", Anno I, 1992
SITI

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